Il Giro d’Italia 1909 – 2
“Si parte!”
Le migliaia di milanesi che assediarono per tutto il pomeriggio l’albergo Loreto, all’interno del quale era in corso la punzonatura delle biciclette che avrebbero partecipato al primo Giro d’Italia, rallentarono non di poco le operazioni affidate ai soci dell’Unione Sportiva Milanese. La gente, a stento trattenuta dalle forze dell’ordine, sembrava impazzita. Poter vedere da vicino il proprio idolo, stringergli la mano, incoraggiarlo e magari scambiare con lui una battuta, un saluto o forse un sorriso, era un’occasione che per molti non si sarebbe più ripresentata. Ma unica era anche, e soprattutto, la sensazione che essere lì quel giorno significava assistere in prima persona alla nascita di un evento storico. Qualcosa, in altre parole, che andava oltre il semplice fatto sportivo.
La processione dei corridori che si avviavano uno dopo l’altro verso l’elegante edificio di corso Buenos Aires fu così salutata da una salva di incitamenti, acclamazioni e grida. Non furono pochi i ciclisti che, colpiti da quell’inaspettata eccitazione di massa, prima di entrare nel salone del Giardino Teatro Margherita per adempiere a quella operazione preliminare, decisero di sostare un poco davanti al Loreto a godersi quel bagno di folla. Si respirava entusiasmo allo stato puro.
La passerella dei corridori
Del resto, da giorni in città non si parlava d’altro. Diversi articoli avevano infatti scandito le ultime uscite (passate, per l’occasione, da due a tre settimanali) della Gazzetta dello Sport, il periodico che aveva organizzato l’evento. Da giorni, poi, anche i rivali del Corriere della Sera pubblicavano resoconti quotidiani sulla corsa che stava per nascere, nonostante solo pochi mesi prima fossero stati bruciati sul tempo proprio dalla rosea nella corsa al patrocinio del Giro.
Tra i primi a passare sotto due ali di folla festante fu Luigi Ganna, tra i maggiori favoriti per la classifica finale. La sua vittoria in solitario di un mese prima nella Milano-Sanremo – primo italiano nelle tre edizioni disputate – gli stava finalmente regalando la notorietà che meritava.
Applausi furono indirizzati anche al passaggio di Giovanni Cuniolo, già vincitore del Campionato Italiano, e di Giovanni Rossignoli, di cui la gente ricordava ancora la vittoria ottenuta nel 1903 nella Gran Fondo con quasi cinque ore di distacco sul secondo.
Un autentico boato accompagnò poi l’arrivo di Giovanni Gerbi, detto il diavolo rosso (a causa del colore della sua tenuta di gara). Piemontese di Borgo Trincere, vincitore di moltissime corse, era famoso per la sua intraprendenza e per le sue fughe memorabili. Ma era noto anche per il suo carattere litigioso e scorretto, a causa del quale subì in carriera diverse squalifiche. Si diceva infatti che seminasse chiodi sulla strada per provocare forature, che corrompesse casellanti per convincerli a chiudere le sbarre dopo il suo passaggio, che pagasse colleghi perché facessero cadere a terra i suoi avversari.
Una certa delusione la provocò invece Romolo Buni, un corridore meneghino amatissimo dai suoi concittadini per la sua determinazione (ancora oggi a Milano si dice «Molla, Buni!» per frenare le persone troppo zelanti o per incitare i pigri), che cercò – pare però inutilmente – di sottrarsi all’abbraccio della folla, facendosi sostituire da un amico.
Fischi e indifferenza furono infine riservati a Carlo Galetti, ciclista moderno e vincente, ma poco amato a causa della sua fama (in gran parte meritata) di corridore opportunista.
In mezzo a quel caos le operazioni di punzonatura poterono terminare solo alle 18, ben cinque ore dopo il loro inizio. Alla fine furono registrati centoventisette corridori, sui centosessantasei iscritti. Accanto ad alcune singole defezioni, anche la squadra francese dell’Alcyon aveva infatti dato forfait all’ultimo minuto.
Tutto adesso era pronto. Ormai non restava che aspettare la notte successiva. Il ritrovo era in piazzale Loreto, da dove intorno alle tre del mattino sarebbe finalmente partita la prima tappa, destinazione Bologna. Il lungo lavoro di preparazione da parte dei dirigenti della Gazzetta dello Sport si era finalmente concluso. Ora toccava ai ciclisti.
Al calar della sera in molti decisero che, almeno per quella volta, di dormire ne avrebbero fatto volentieri a meno. Così, fin da prima di mezzanotte, al rondò di Loreto cominciarono ad affluire migliaia di milanesi che riempirono i bar della zona nell’attesa della partenza.
Intorno all’una arrivarono i primi ciclisti in sella alle loro biciclette, per cominciare i primi esercizi di riscaldamento. L’entusiasmo – come nel pomeriggio – salì immediatamente alle stelle. Dalla Gazzetta dello Sport del giorno dopo: «“Gerbi! Gerbi!” È il beniamino dei beniamini, e passa sorridente, un po’ commosso. Ganna, dinoccolato e come intontito. Cuniolo, rigido e aristocratico nella sua linea bianca; Galetti, temibile e temuto scojattolo delle grandi occasioni, sbarbato e vibrante; Pavesi e qualche altro sono accolti da applausi, da auguri, da incitamenti. […] La folla ondeggia, annaspa, scruta nel buio della notte».
Poco dopo le due e mezza iniziarono a riscaldare i motori anche le tre automobili apripista del Giro: una Züst, a bordo della quale sarebbero saliti Eugenio Camillo Costamagna, il direttore della rosea (noto con lo pseudonimo di Magno), e l’avvocato Pilade Carozzi, vice presidente dell’UCI (l’Union Cyclist International). Quindi una Bianchi, riservata ai rappresentanti delle case ciclistiche e guidata da Giovanni Tomaselli, campione italiano di velocità su pista. Infine un’Itala fornita dalla Pirelli, che avrebbe ospitato Armando Cougnet, il direttore della corsa, e i giornalisti che avrebbero potuto seguire la corsa dal vivo.
Mentre i corridori cominciavano a radunarsi nella zona della partenza, si accesero anche i riflettori e le telecamere di Luca Comerio, fotografo e cineasta a capo della Milano Films, in quel momento il più grande e attrezzato studio cinematografico del mondo.
In questo turbinio di urla e di luci artificiali, l’eccitazione, le speranze e i timori di tutti arrivarono a livelli parossistici. Ci fu ancora il tempo per un ultimo discorso inaugurale, affidato al cavalier Carlo Cavanenghi, presidente dell’UVI (l’Unione Velocipedista Italiana), le cui parole – c’è da scommetterci – caddero probabilmente nel disinteresse generale.
Una solenne partenza
Poi tutta l’attenzione della gente si spostò su Gilberto Marley, il più famoso cronometrista dell’epoca, nominato mossiere del Giro dopo aver maturato analoghe esperienze in centinaia di corse ciclistiche e automobilistiche. Un’occhiata all’orologio, quindi – finalmente – il via.
Ancora dalla Gazzetta del 14 maggio: «I piedi premono, i garetti [sic] scattano, il piccolo esercito di ciclisti si stacca. La folla scoppia in un lungo ululato di ammirazione, di entusiasmo, di augurio, di gioia. Un lampo, una luce bianchissima, abbagliante che tutto avvolge e illumina come di pieno meriggio. La schiera ciclistica sembra per un istante lunghissima, infinita, enorme […]. La luce scompare, lasciando abbacinati; il cinematografo ha colto l’appetitosa visione: il Primo Giro Ciclistico d’Italia è in moto. Viva il ciclismo italiano!».
Erano le 2,53 del 13 maggio 1909. All’abbassarsi della bandierina i corridori scattarono all’unisono. Davanti li aspettavano 397 Km di strade fangose e sconnesse che li avrebbero portati, nel pomeriggio, all’arrivo fissato all’interno dell’ippodromo Zappoli, a Bologna.
Il Giro d’Italia era dunque cominciato. Quella notte da piazzale Loreto partì il primo capitolo di un’avventura che negli anni seguenti avrebbe viaggiato attraverso il paese non solo da nord a sud, ma anche, e soprattutto, dentro la sua anima più profonda, più genuina. Un’avventura che, complice l’interesse per il risultato sportivo, avrebbe unito genti e culture, avvicinato costumi e modi di pensare, innescato sogni e passioni, coagulato speranze e progetti.
Quella notte segnò l’inizio di un capitolo di storia italiana.
Marco Dalla Croce
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