Fastnet 1979
La regata della morte
Nel tardo pomeriggio di lunedì 13 agosto 1979 il cielo cominciò ad assumere una colorazione strana. Un’insolita tinta rossa, attraversata da lunghe striature ocra e arancioni, infiammò l’intera volta, riflettendosi sulle onde che restituivano bagliori e riflessi inconsueti. Un tramonto vagamente inquietante, sicuramente spettacolare.
Negli stessi momenti, il mare, sollecitato da un vivace vento da nord-est, iniziò ad aumentare d’intensità. La brezza, che aveva accompagnato fino a quel mattino le imbarcazioni in gara, era solo un ricordo, così come la strana cappa di nebbia, con relativa bonaccia, che subito dopo aveva avvolto i concorrenti. La corsa verso il Fastnet Rock, lo scoglio irlandese da sempre boa naturale di metà percorso della prestigiosa Fastnet Race, era stata fortemente rallentata.
Di sera, poi, il tempo cambiò ancora: il vento, che ora soffiava a venticinque nodi, ruotò verso sud-ovest, spingendo contro gli scafi che avevano già doppiato il faro di Land’s End, in Cornovaglia, onde sempre più grandi e nuvole che non promettevano nulla di buono.
Previsioni sbagliate
È vero che il meteo britannico aveva escluso la possibilità di una tempesta, ma l’evidenza diceva un’altra cosa. Tutti, anche gli skipper più esperti, pretesero allora di essere rassicurati sull’evoluzione delle condizioni del tempo. La Guardia Costiera, contravvenendo alle regole che vietavano ogni forma di assistenza, ebbe il compito di tranquillizzare i regatanti: per quel tratto di mare la BBC, che ogni sei ore emetteva un bollettino meteorologico, aveva sì individuato un vortice di bassa pressione in rapido transito, ma aveva anche escluso fenomeni importanti. Il suo minimo depressionario, di 1.010 millibar, non poteva infatti costituire un rischio reale per le imbarcazioni. Raffiche sostenute (fino a trentatré nodi), alimentate da un vento forza sei/sette, erano previste soltanto nell’area circostante il faro di Fastnet. Condizioni sicuramente difficili, ma niente di veramente pericoloso.
La ritrovata tranquillità da parte della maggior parte dei concorrenti durò tuttavia ben poco. Appena calato il buio, infatti, il vento raddoppiò velocemente di intensità, mandando fuori scala gli anemometri. Quando, poi, i barometri di bordo registrarono un crollo verticale della pressione atmosferica, fu chiaro a tutti che la tempesta che la BBC aveva così frettolosamente escluso stava invece per scoppiare.
E che tempesta! Le condizioni del tempo e del mare si fecero subito molto difficili, tanto da spingere molti skipper ad ammainare anche le piccole e resistenti vele tormentine, che fin dal tramonto avevano sostituito gli spinnaker, i genoa e i fiocchi issati nel pomeriggio. Servì a poco, anzi, a posteriori questa decisione si rivelò un errore. Privati anche della velatura più robusta, che avrebbe almeno garantito una propulsione minima, ma sufficiente per governare meglio la situazione, quasi tutti gli scafi, soprattutto i più piccoli, si trovarono ben presto in balia degli elementi. Molti alberi maestri, timoni e pulpiti furono distrutti dalla forza del vento e scaraventati in mare da autentici muri d’acqua che, in qualche caso, ghermirono anche alcuni sventurati marinai.
Fu così che quella notte un fortunale mai visto, almeno in quella stagione, colpì il tratto di mare che separa l’Inghilterra dall’Irlanda, proprio mentre era in corso la XXVII edizione della Fastnet Race. La più grande tragedia della storia della vela era appena cominciata.
L’importante competizione, nata nel 1925, aveva preso il via, puntualissima, alle 13,30 di due giorni prima, sabato 11 agosto. Approfittando della bella giornata di sole, migliaia di persone erano convenute nei pressi del porto di Cowes, nell’isola di Wight, per assistere alle affascinanti procedure della partenza. Le oltre trecento imbarcazioni iscritte costituivano un vero e proprio record e un innegabile successo organizzativo. Oltre alle cinquantasette partecipanti all’Admiral’s Cup, al via erano infatti presenti anche una sessantina di barche di quinta classe e circa duecento scafi indipendenti. In gara c’erano quasi tremila uomini, la maggior parte dei quali semplici appassionati. Un numero enorme, spiegabile solo grazie alle particolari condizioni meteorologiche in cui di norma si svolgeva la regata: mare calmo, venti leggeri e temperature miti.
Così, una dopo l’altra, le sei classi in cui erano stati inseriti i regatanti, presero il via. La favorevole corrente presente nel Solent, lo stretto canale che separa l’isola di Wight dalla terraferma, spinse in poco tempo tutti i partecipanti oltre i bianchi bastioni dei Needles e, quindi, nel canale della Manica dove, a causa di un buon vento da sud-ovest, adottarono una tranquilla – e obbligata – navigazione di bolina.
Ma la Fastnet Race non è mai stata una gara semplice, anzi. Dopo aver lasciato Cowes, le barche devono infatti costeggiare le coste della Cornovaglia, attraversare il mare d’Irlanda, doppiare il Fastnet Rock e, infine, rientrare nel porto di Plymouth. In totale poco più di seicento miglia nautiche, di cui oltre la metà in pieno Oceano. Sullo sfondo, a completare il quadro, la possibilità – tutto sommato non trascurabile – di incontrare insidie ambientali di una certa pericolosità. Come avvenne quella volta.
Due giorni dopo, infatti, a ovest della Cornovaglia, le condizioni meteo subirono svariati mutamenti, tutti concentrati in poche ore: prima la nebbia, quindi la bonaccia e il tramonto infuocato, infine il giro e il rinforzo del vento. Un quadro che, secondo l’esperienza, avrebbe dovuto mettere all’erta i meteorologi della BBC, anche perché le carte in loro possesso contenevano tutti gli elementi necessari per ritenere probabile, di lì a breve, un drammatico deterioramento del tempo. La perturbazione proveniente da ovest era sì di scarsa entità, ma aveva grandi possibilità di scontrarsi con un’altra depressione, più lenta e profonda, che stazionava più a nord. Purtroppo fu proprio quello che accadde. Quando in serata i due vortici effettivamente si fusero, il centro depressionario risultante collassò fino a un minimo di 990 millibar, dando vita a una formidabile tempesta. Quando i meteorologi di Sua Maestà se ne accorsero era troppo tardi. L’ultimo bollettino diramato dalla BBC, questa volta corretto e carico di apprensione, giunse agli skipper quando le loro imbarcazioni erano già inesorabilmente in balia degli elementi. Fu una notte spaventosa.
Un fortunale catastrofico
La flotta fu aggredita da un fortunale catastrofico, alimentato da un vortice che, nelle prime ore del mattino, toccò i 978 millibar. Venti di oltre settanta nodi e onde enormi, amplificate dai fondali relativamente bassi, colpirono gli yacht. Molti furono disalberati, altri scuffiarono, altri ancora vennero abbandonati da equipaggi in preda al panico che cercarono un’improbabile salvezza sulle inconsistenti scialuppe di salvataggio.
Le operazioni di recupero cominciarono quella notte stessa e coinvolsero circa quattromila uomini a bordo di mezzi navali britannici, irlandesi e olandesi. A partire dalle prime luci dell’alba di martedì, con i venti calati sotto i quaranta nodi, poterono intervenire anche alcuni elicotteri Sea King che trassero in salvo almeno centocinquanta persone. Di quindici marinai non si ebbero invece mai più notizie.
Alla fine, delle oltre trecento imbarcazioni iscritte, se ne ritirarono centonovantaquattro, quasi tutte appartenenti alle classi inferiori, cinque affondarono e ventiquattro vennero abbandonate in mare.
Per la cronaca la gara la vinse il Tenacious, uno scafo di proprietà del miliardario Ted Turner, che all’alba di martedì aveva doppiato il Fastnet Rock sommerso da onde alte venti metri.
Il veliero americano non fu tuttavia salutato dal consueto entusiasmo riservato al vincitore. Gli spettatori presenti all’arrivo, infatti, decisero che, quella volta, la Fastnet Race l’avrebbe vinta ogni equipaggio che sarebbe riuscito a rientrare sano e salvo a Plymouth.
Migliaia di occhi commossi rimasero così in attesa a scrutare l’orizzonte.
Marco Della Croce
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