Carlo Airoldi
A un metro dalla gloria
A memoria d’uomo non si era mai visto nulla di simile. I cittadini di Barcellona, presenti in massa per assistere all’epilogo di quella corsa infinita, restarono senza parole quando i due battistrada sbucarono in fondo al rettilineo finale. L’italiano Carlo Airoldi e il francese Louis Ortègue, partiti sedici giorni prima da Torino, erano – contro ogni logica – ancora insieme.
A quel tempo i normali distacchi tra gli atleti, al termine di quelle folli competizioni allora in gran voga, si misuravano in ore, quando non in giorni. Quel martedì 24 settembre 1895 non andò così. Non erano bastati gli oltre mille chilometri del percorso a separare i due concorrenti. Insieme avevano percorso le ultime frazioni e insieme stavano per concludere quella prestigiosa pedestrian race.
La contemporanea presenza di due corridori all’arrivo, per quanto anomala, non sarebbe bastata però a giustificare lo stupore generale. Airoldi e Ortègue arrivarono davvero insieme: l’italiano, infatti, tagliò il traguardo portando sulle spalle lo sfinito transalpino. «Il primo sono io», esclamò Carlo rivolgendosi, con un gran sorriso sotto i baffi a manubrio, agli sbalorditi presenti. «Il secondo è questo qui che ho sulla schiena». Più insieme di così!
Tutto era cominciato l’8 settembre, una domenica mattina, nel capoluogo piemontese. In piazza Carlo Felice, davanti alla banda e a una buona cornice di spettatori, si stavano allestendo gli ultimi preparativi per la partenza della corsa Torino-Marsiglia-Barcellona. Una competizione il cui significato andava aldilà dell’aspetto puramente sportivo: i Pionieri della Pace, una sorta di associazione umanitaria che aveva organizzato quell’interminabile marcia, confidavano che l’amicizia fra i popoli dovesse passare anche attraverso iniziative di quella portata. L’auspicio – a dire il vero un po’ ingenuo – fu sottolineato da un brindisi che coinvolse tutta la piazza.
Da Torino a Barcellona
Alla partenza undici atleti: nove piemontesi più un lombardo e un (pare) marsigliese, Airoldi e Ortègue, appunto. A tutti vennero consegnati dei libretti sui quali, alla fine di ogni tappa, il referente locale dell’organizzazione avrebbe apposto la sua firma a testimonianza dell’avvenuta conclusione della frazione.
L’italiano e il francese, entrambi ventiseienni, erano gli unici in grado di potersi assicurare la vittoria finale. Airoldi, nato a Origgio (Varese) e socio della Veloce, noto club atletico meneghino, aveva al suo attivo la Lecco-Milano e la più prestigiosa Milano-Torino. Di bassa statura, tarchiato e robusto, Carlo stava a metà tra il fenomeno di baraccone e l’atleta. In testa aveva solo la corsa, ma per finanziare la sua passione era costretto ad arrotondare il suo stipendio di operaio con esibizioni a pagamento, come la lotta, il braccio di ferro e il sollevamento pesi. Ortègue, invece, di conformazione fisica e di mentalità più simili allo sportivo moderno, era diventato famoso per aver battuto in più di un’occasione il fortissimo Achille Bargossi, noto come la Locomotiva umana.
I fatti confermarono i pronostici. Già dopo le prime tre tappe, corse per lo più su strade alpine, il gruppo perse cinque concorrenti. Da Ventimiglia la gara proseguì attraverso la Provenza, toccando Nizza, Tolone e Marsiglia, quindi puntò finalmente verso il confine spagnolo, dopo aver attraversato Nîmes, Montpellier e Perpignan. L’ultima tappa, da Figueras a Barcellona, di centoquaranta chilometri, fu la più dura di tutte. Le strade accidentate e fangose, i molti guadi di fortuna e la stanchezza accumulata in due settimane di corsa crearono ben presto la selezione: Airoldi e Ortègue in fuga, gli altri quattro staccatissimi.
A un chilometro dall’arrivo, quando ormai si profilava un appassionante testa a testa tra i due favoriti, il colpo di scena: mentre Carlo filava come un treno verso il traguardo, il francese crollò a terra, stremato. Airoldi non se la sentì di lasciare il rivale in quelle condizioni. Tornato indietro se lo caricò sulle spalle e, come se fosse la cosa più normale del mondo, tagliò il traguardo.
Un gesto d’altruismo che rese molto popolare l’italiano. Congratulazioni, copertine sui giornali e, soprattutto, un premio di cinquecento pesetas, offerte dalla municipalità catalana. Quei soldi, che Carlo divise generosamente con Ortègue, servirono a entrambi a pagarsi il viaggio di ritorno in treno. Un riconoscimento in denaro invero molto modesto, ma che fu all’origine della sue successive sfortune.
L’Olimpiade a tutti i costi
Airoldi, tornato a Milano caricatissimo, decise che avrebbe corso (e vinto) la maratona della prima Olimpiade moderna della storia, in programma l’aprile successivo ad Atene. Già, ma come fare ad arrivarci, lui che era sempre senza una lira? Impossibile far parte della rappresentativa nazionale, che aveva declinato l’invito ai Giochi. Impensabile il finanziamento da parte di un’università, lui che era solo un povero operaio. Sponsor, poi, nemmeno a parlarne. E allora? Gli venne in mente un’idea folle: sarebbe andato in Grecia a piedi! Si presentò così al direttore del periodico La Bicicletta a cui Carlo chiese il supporto logistico in cambio del suo diario di viaggio (quasi) quotidiano da pubblicare sul giornale. La risposta fu positiva e l’atleta poté finalmente mettersi in cammino.
Airoldi partì il 28 febbraio 1896. Più che un viaggio l’iniziativa assunse ben presto le caratteristiche di un’epica impresa: settanta chilometri al giorno (per un totale di duemila previsti), da percorrere attraverso l’Italia, l’Austria, l’Impero Ottomano e la Grecia. Pioggia, vento, freddo, gelo e neve lo accompagnarono da Milano a Spalato, attraverso strade fangose e dissestate. Giunto a Ragusa, il console italiano lo invitò a non proseguire via terra: troppo pericoloso attraversare l’Albania, priva di vere strade e infestata da briganti. A malincuore Carlo s’imbarcò su un piroscafo austriaco, pagatogli dal console stesso. Sbarcò a Corfù, da dove raggiunse – a piedi, ovviamente – la capitale ellenica il 31 marzo.
Ad Atene grande accoglienza, interviste, ammirazione per le sue imprese. Una popolarità enorme, unita al favore dei pronostici per l’imminente maratona. Le speranze di partecipare alla gara, però, svanirono in un attimo. La sua iscrizione venne infatti rifiutata: quel premio ricevuto a Barcellona, quelle maledette cinquecento pesetas divise con Ortègue per tornare a casa, fecero di lui, agli occhi del CIO, un professionista. A nulla servirono i telegrammi da parte delle autorità italiane che cercarono di provare in tutti i modi il suo effettivo status di dilettante. La decisione fu irremovibile e tale da far sorgere seri dubbi circa la volontà da parte degli organizzatori di escludere un atleta così forte da una gara a cui tenevano molto.
Come finì la maratona della prima Olimpiade dell’era moderna lo sanno tutti. Carlo, piegato dal dolore («Vedere arrivare il primo in mezzo a tanta festa ed io non poter correre per delle ragioni assurde, fu il più grande dolore della mia vita» scrisse una volta tornato in Italia), volle comunque assistere alla gara.
Quando Spiridon Louis tagliò il traguardo, ottenendo fama imperitura, nella mente del ragazzo di Origgio si formò la convinzione che avrebbe dovuto finirci lui nei libri di storia e non il pastore greco. Era giunto a un solo metro dalla gloria.
Carlo Airoldi tornò così alle sue corse infinite, alle sue sfide da circo, ai suoi mille mestieri, cercando sempre di sfuggire a quell’ingiusto anonimato a cui il destino lo aveva relegato a causa della sua generosità.
Fu tutto inutile.
Marco Della Croce
© Riproduzione Riservata
Ultimi commenti