Gottfried von Cramm
Il barone di Wimbledon
Gottfried von Cramm aveva appena fatto il suo ingresso sull’erba del Centre Court di Wimbledon, quando fu raggiunto da un inserviente che, trafelato, lo informò che era appena arrivata una telefonata per lui. L’iniziale perplessità della punta di diamante della squadra tedesca di Coppa Davis sull’opportunità di rispondere al telefono in quel momento, lasciò ben presto il posto alla curiosità. Le proteste degli organizzatori, preoccupati che la regina Mary, già seduta nel suo royal box, fosse costretta a subire un inaudito ritardo sull’orario di inizio della partita a causa di quell’inusuale contrattempo, furono inutili. Von Cramm, gentile come sempre, rispose che poteva essere importante.
Importante, quella telefonata, probabilmente lo fu davvero. Don Budge, l’americano contro cui avrebbe dovuto giocare di lì a poco, giurò infatti di aver sentito l’avversario rispondere «Ja, mein Führer». L’interessato, tuttavia, in seguito smentì sempre che all’altro capo della cornetta ci fosse stato Adolf Hitler. Quella chiamata, comunque, dovette colpirlo, e non poco: quando più tardi rientrò in campo, il tedesco sembrava aver perso la sua tradizionale imperturbabilità.
Un incontro decisivo
A pensarci bene, una telefonata del Führer in quel momento non sarebbe stata poi così strana. Il match che von Cramm si apprestava a giocare era infatti la quinta e ultima partita della finale interzona di Coppa Davis – edizione del 1937 – tra gli USA e la Germania. Un incontro decisivo – le due squadre erano sul 2-2 –, da cui sarebbe uscito il team che avrebbe sfidato nella finalissima, in programma qualche giorno dopo, i campioni in carica della Gran Bretagna.
In palio, a ben guardare, c’era molto di più di una vittoria in una semifinale tra nazionali di tennis. C’era innanzitutto un obbiettivo sportivo: secondo molti addetti ai lavori, infatti, chi avesse vinto quella partita avrebbe anche quasi sicuramente conquistato la preziosa Insalatiera, dal momento che i campioni uscenti erano ritenuti più deboli rispetto alle due semifinaliste. La defezione del loro giocatore più rappresentativo, Fred Perry, da poco passato al professionismo, aveva infatti indebolito in maniera decisiva la squadra britannica.
Ben più importanti, invece, apparivano le valutazioni di ordine politico. Una vittoria della Germania in Coppa Davis, una competizione già allora molto prestigiosa, avrebbe costituito un formidabile volano propagandistico per il Reich in un momento – ricordiamolo, siamo nell’estate del 1937 – in cui Hitler stava preparando l’innesco di un incendio che di lì a poco avrebbe devastato il mondo intero. Gottfried von Cramm, alto, bello e biondo, sembrava nato apposta per incarnare l’archetipo dell’atleta ariano. Conquistare il titolo avrebbe dunque rafforzato il mito della superiorità tedesca, soprattutto se a farne le spese fossero state gli odiati Stati Uniti e Gran Bretagna.
Il tennista tedesco, tuttavia, nato nel 1909 da una famiglia di antica nobiltà (era infatti un barone), aveva sempre rifiutato di farsi strumento del regime. Non che il ragazzo fosse stato un irriducibile dissidente, questo no, ma il suo carattere fiero e autonomo gli aveva sempre fatto declinare con fermezza tutti gli inviti a diventare un uomo del Reich. Mai aveva fatto in pubblico il saluto nazista e questo non lo aveva certo messo sotto una buona luce. Quella telefonata, sempre che fosse stata proprio di Hitler, fu dunque l’ennesimo tentativo di portare sotto la sua influenza quel formidabile atleta.
Fu anche l’ultimo, in tutti i sensi. I continui rifiuti e la sua – per altro discreta – omosessualità, avevano ormai logorato la pazienza della Gestapo, che lo aveva fino ad allora tollerato solo a causa della sua grande popolarità internazionale. Una prima, dolorosa punizione lo aveva infatti già colpito pochi mesi prima, quando la sua Federazione gli aveva impedito di difendere il titolo agli Internazionali di Francia, conquistato l’anno precedente contro Perry.
Probabilmente, dopo quella telefonata von Cramm comprese che, quel giorno, una sua sconfitta contro Budge non sarebbe stata presa per niente bene dal regime. Quando il barone rientrò in campo, i quindicimila presenti, tra cui l’ambasciatore tedesco Joachim von Ribbentrop, il ministro dello sport del Reich Hans von Tschammer und Osten e l’attore Jack Bennye, si accorsero che il suo abituale aplomb aveva lasciato il posto a una poco aristocratica preoccupazione.
Il match, a dispetto del contrattempo, cominciò in perfetto orario. Fin dall’inizio von Cramm si avventò su ogni palla come se fosse stata quella decisiva. Una tattica insolita per lui, che aveva fatto della tecnica e dell’eleganza il suo marchio distintivo. L’incontro andò avanti con una serie incredibile di smash e volée. A ogni servizio strappato dall’uno corrispondeva un immediato controbreak dell’altro. Il primo set fu spettacolare: sul 5-4 per l’americano, ci fu una pronta risposta da parte del tedesco che, in vantaggio per 6-5, si fece però recuperare. Fu un fuoco di paglia. Subito dopo Budge accusò infatti un evidente calo fisico, spianando la strada a von Cramm che concluse sull’8-6.
Nel secondo set il barone sfruttò ancora meglio il suo servizio e finì per imporsi sull’americano con un sudatissimo 7-5. «Stavo giocando un tennis magnifico» disse in seguito il californiano «ma per quanti pochi errori facessi quel giorno, il mio avversario ne faceva ancora meno».
Il 2-0 galvanizzò la delegazione nazista tanto che il fuoriclasse americano Bill Tilden, per l’occasione assunto come coach dalla Federazione tedesca, urlò al “suo” giocatore che la vittoria era ormai cosa fatta. La panchina americana, comprensibilmente, non la prese tanto bene e cominciò a insultare il “traditore”. Budge, asciugatosi il sudore, guardò negli occhi il suo capitano, lo assicurò sulle sue condizioni fisiche e gli promise che avrebbe vinto l’incontro.
E così fu. Di fronte alle bordate del suo avversario, il mancino californiano rispose sfoderando il suo imprendibile rovescio, lo stesso che, solo qualche giorno prima, gli aveva permesso di superare ancora von Cramm nella finale del torneo di Wimbledon, giocata sempre sull’erba del Centre Court. Il tedesco, in crisi di forze e di fiducia, perse i due successivi set per 6-4 e 6-2, e la partita, inaspettatamente, si riaprì.
Qui accadde una cosa imprevista: nell’ultimo set il barone, che pareva avesse finito la benzina, si portò invece sul 4-1: due soli giochi lo separavano dalla vittoria. Von Cramm non aveva però fatto i conti con la determinazione di Budge che, in breve, recuperò e, sul 7-6 per lui, sfoderò un memorabile passante che annichilì il tennista tedesco.
Il canto del cigno
Era finita. Gli Stati Uniti avevano battuto la Germania per 3-2 e, come previsto, la settimana successiva si aggiudicarono facilmente la Coppa Davis su un’inconsistente Gran Bretagna. Quanto a von Cramm, il barone tenne fede alla sua fama, rivolgendosi all’avversario con queste parole: «È stata la più bella partita della mia vita e sono contento di averla potuta giocare con chi stimo molto».
Per molti quello fu probabilmente anche il più bel match del XX secolo, ma fu anche il canto del cigno di von Cramm. Come previsto, infatti, il barone pagò a caro prezzo quella sconfitta. L’anno successivo, per essersi ancora una volta rifiutato di propagandare le idee del Reich, fu addirittura incarcerato con l’accusa di omosessualità. Non fece una piega: andò in prigione e ne uscì solo un anno dopo. Tornò allora sui campi, ma nel 1939 subì una cocente umiliazione da parte degli inglesi che gli rifiutarono l’iscrizione a Wimbledon, quindi si fece tutta la Seconda Guerra Mondiale da semplice e dignitoso sottufficiale.
Finito il conflitto, von Cramm tornò a fare quello che più gli piaceva: giocare a tennis. Le persecuzioni del regime e la guerra gli avevano fatto perdere gli anni migliori, ma lui riuscì a vincere ancora qualche torneo. La sua classe e la sua dignità erano rimaste quelle di sempre.
Marco Della Croce
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