Melbourne 1956: Ungheria-URSS
…e l’acqua si tinse di rosso
L’urlo tremendo di Ervin Zádor zittisce di colpo la bolgia infernale che, come un tuono sordo e cattivo, scuote gli spalti fin dall’inizio del match. Per qualche istante, il tifo, le urla e gli insulti dei cinquemilacinquecento spettatori si trasformano in sorpresa. Non è un trucco, l’acqua della piscina sta davvero diventando rossa!
La scena ha qualcosa di surreale: il pubblico, in silenzio, guarda il volto del giovane magiaro ridotto a una maschera di sangue. Poi la situazione precipita. Centinaia di persone abbandonano la tribuna e si riversano a bordo vasca, ora increspata da minuscole onde color porpora. La gente cerca di aggredire i giocatori sovietici, mentre è in corso una rissa memorabile tra le due squadre. La partita finisce qui, anche se manca un minuto al termine. A fatica la polizia evita che i sovietici restino vittime della furia degli spettatori.
Tensione
È il pomeriggio del 6 dicembre del 1956, un giovedì. Siamo al Crystal Palace di Melbourne, Australia. La partita è Ungheria-URSS, valida per il torneo di pallanuoto dei XVI Giochi Olimpici. Perché, dunque, quella rabbia? Perché le botte, le urla e il rancore? Perché tutto quel sangue?
Bisogna tornare indietro nel tempo di pochi giorni. Più precisamente al 23 ottobre, quando a Budapest esplode la rabbia degli ungheresi contro il governo filosovietico. Càpita che una normale manifestazione studentesca si trasformi di colpo in un’insurrezione popolare. L’onda della protesta è inarrestabile: il regime di Mátyás Rákosi prima vacilla, poi cade. A furor di popolo viene nominato un nuovo esecutivo, guidato da Imre Nagy, un moderato da poco espulso dal PC ungherese. Non dura molto, però. All’alba del 4 novembre il rumore dei cingolati sovietici risuona sinistro nelle vie della capitale, minacciosa avanguardia di una violenta reazione che in meno di una settimana spazzerà via, soffocandola nel sangue, la rivoluzione danubiana.
Il 10 novembre è tutto finito. Al potere ora c’è János Kádár, gradito a Mosca. Nagy e i capi della rivolta arrestati o uccisi. Migliaia di morti, di feriti, di profughi. Macerie un po’ ovunque. Il sogno è stato interrotto.
Càpita che la rivoluzione danubiana nasca e muoia a poche settimane dall’inaugurazione dell’Olimpiade australiana, la cui cerimonia d’apertura è prevista per il 22 novembre. Sono giorni in cui i nazionali magiari selezionati per i Giochi stanno completando l’ultima fase di preparazione. Non fanno eccezione i giocatori di pallanuoto – sport molto popolare da queste parti –, dati per favoriti alla vittoria finale. La squadra che ha trionfato a Helsinki quattro anni prima si è infatti rinforzata con due-tre giovani molto promettenti.
Per i ragazzi allenati da Béla Rajki la rivoluzione è comunque molto lontana. Per sfuggire al caos li portano ad allenarsi in collina, dove sono distanti dai tumulti e dagli spari ma, paradossalmente, anche dall’acqua: in ritiro non c’è nemmeno la piscina! Fa’ niente, si cura di più la parte atletica. L’importante è che sappiano poco o nulla di ciò che sta succedendo.
Poi, proprio mentre i carri sovietici puntano su Budapest, volano in Australia, via Praga. Ed ecco che a Darwin, tappa di avvicinamento verso Melbourne, scoprono finalmente la verità: a casa loro c’è stata una rivoluzione soffocata nel sangue da Mosca! La rabbia è alle stelle: Zádor dichiara che non tornerà mai più in patria, infischiandosene delle possibili rappresaglie. Ma non gli accade nulla: la delegazione magiara, accolta ovunque da simpatia e solidarietà, si stringe compatta nel condannare la brutale repressione.
Tra proteste e boicottaggi, i Giochi iniziano regolarmente il giorno stabilito. Il 28 novembre comincia anche il torneo di pallanuoto con una formula che prevede un girone finale all’italiana a cui accedono le prime due classificate dei tre gruppi eliminatori. I magiari, che da un mese non vedono una piscina, decidono di modificare il loro gioco, tradizionalmente offensivo ma troppo dispendioso. Viene così potenziata la fase difensiva, ora schierata non più a uomo, ma a zona. Nel loro piccolo, un’autentica rivoluzione.
Il nuovo modulo funziona: l’Ungheria strapazza britannici e inglesi e passa al raggruppamento finale dove, oltre a Jugoslavia, Italia, Germania e USA, si sono qualificati anche i sovietici. Quando si dice il destino! Il caso offre ai magiari un’immediata – e insperata – occasione di rivincita. Ai ragazzi di Rajki non sembra vero. Prima, però, devono giocare contro italiani e tedeschi: due match senza storia, finiti 4-0 a favore degli scatenati danubiani.
Quel fatidico 6 dicembre è preceduto da dichiarazioni forti da entrambe le parti e – si dice – minacce da parte dei sovietici. Gli ungheresi sanno di non aver alternative: devono battere gli oppressori, lo devono alla loro gente. Lo sanno anche gli avversari che sono decisi a vendere cara la pelle. Ma quel giorno i magiari sono troppo forti e troppo determinati per poter perdere.
Vinceranno, infatti, ma non sarà una passeggiata. Rabbia e rancore esplodono in vasca fin dai primi secondi. I danubiani irritano gli avversari con efficaci trame difensive e con insulti in russo, lingua che sono costretti a imparare a scuola. I colpi proibiti sopra e sotto l’acqua non si contano più e l’arbitro, lo svedese Sam Zuckerman, nonostante cinque espulsioni, perde il controllo della partita. Il primo tempo si chiude con il risultato di 2-0 per i magiari, grazie a un contestato rigore di Dezsö Gyarmati e a un gol di Zádor.
Il sangue di Zádor
Il secondo tempo è ancora più violento. Insulti e botte da entrambe le parti e, in mezzo, altri due gol ungheresi, uno di Kálmán Markovits e uno ancora di Zádor che, di lì a poco, sarà protagonista di un drammatico finale. Passato a marcare Valentin Prokopov, a pochi secondi dalla fine riceve da questi un pugno fortissimo che gli apre una larga ferita sul sopracciglio. Quindi il sangue, l’acqua che diventa rossa, la gente inferocita, la fine fischiata in anticipo (il 4-0 verrà poi omologato), i sovietici sottratti a stento a tentativi di linciaggio e i magiari applauditi da due ali di folla istericamente entusiasta.
Di quel pomeriggio oggi resta una famosa foto che ritrae Zádor, uscito dalla vasca, che sembra lacrimare sangue. Quella vittoria, fortemente voluta, gli costa molto cara: tredici punti di sutura e la mancata presenza nella successiva partita vinta contro la Jugoslavia, match che vale l’oro olimpico.
Le lacrime – vere e amare – il giovanotto le versò copiose sul podio. A Darwin aveva detto che non sarebbe più tornato in Ungheria. Mantenne la parola (rivide Budapest nel 2002) e andò a vivere in California, dove chiese asilo politico assieme ad altri compagni e dove si mise a scoprire e ad allenare giovani talenti della piscina. Agli inizi degli anni Sessanta ne individuò uno che gli sembrava particolarmente promettente: si chiamava Mark Spitz.
Da allora, nel cuore di Zádor, la fitta di nostalgia per il Danubio e per la sua patria ferita a morte si fece probabilmente meno acuta.
Marco Della Croce
© Riproduzione Riservata
Ultimi commenti