Shosholoza
La barca che non mollava mai
Alla fine dei round robin, durante la trentaduesima edizione della Coppa America (l’ultima corsa con i monoscafi nel mare di Valencia, in Spagna), era arrivata settima su undici. Detto così non sembra un gran che, ma è stato un successo. Inaspettato, sorprendente e storico.
Shosholoza, l’unica barca africana ad aver mai partecipato alla competizione più famosa e seguita nel mondo della vela, è stata una scommessa vinta in partenza: con la storia, con il destino e contro tutto quello che nel tempo (trentadue competizioni e centocinquantasei anni di storia) era diventata la Coppa. Una competizione senza quartiere tra soldi, tecnologie, avvocati e regolamenti. Shosholoza era invece nata da un sogno e la sua storia aveva riempito le pagine dei giornali e dato un’anima alla competizione del 2007, indipendentemente dai risultati sul campo di regata.
«La barca avrebbe dovuto chiamarsi Madiba. Così i neri sudafricani chiamano Nelson Mandela» ha raccontato l’artefice del sogno, Salvatore Sarno, O’Capitano. Il ragazzino del 1945 che a Nocera guardava il mare sognando di navigare e che era diventato presidente del ramo container della MSC (Mediterranean Shipping Company) con sede a Durban, in Sudafrica. «Ma finii con lo sceglierle per nome il titolo di una canzone. Un inno che parla di lavoro, di cocciutaggine e di riscatto». In zulu shosholoza significa “andare avanti”, “non mollare mai”, e la canzone con quel nome era cantata dai minatori della Rhodesia quando in treno si recavano a lavorare nel Trasnvaal. «Un invito al lavoro di gruppo. Una esortazione a non arrendersi mai» spiega Sarno. «Proprio quello che ci voleva».
Era il nome giusto per una sfida che sembrava impossibile.
Metti una barca in prima pagina
Se la trentaduesima Coppa America resterà nella storia come una delle più belle edizioni molto lo si deve al fatto che dentro c’era “l’anima della vela”, come venne soprannominata la barca sudafricana non appena fece il suo ingresso tra gli sfidanti. Nera come l’Africa con quella sua onda stilizzata con i colori della bandiera, la barca era data 100 a 1 dai bookmaker, ma cominciò a subito ad accumulare vittorie. Anche se non a forza di virate e strambate. Vinse nuovi e potenti sponsor (oltre la Msc, naturalmente) convinti dai loro marketing manager: era quella barca che aveva la migliore visibilità e positività di messaggio (in gergo marketing: assicurava la migliore redemption). Era infatti sempre sui giornali e in TV guadagnandosi le cover story di tutti i media in tutto il mondo. In barba alle innovazioni tecniche di vele, bulbi e carene esibite dagli altri team, lì c’era “una vera storia da raccontare”. Una di quelle che potevano cominciare con “c’era una volta”.
Una fiaba moderna, irresistibile. Nel 2006 Shosholoza vinse persino il premio del miglior design, provando al mondo ancora una volta che le favole potevano diventare realtà e che dipingere sulla fiancata una rielaborazione “fatta in casa” di un disegno etnico poteva avere la meglio sui maggiori grafici internazionali assoldati dai potenti team concorrenti.
Nel circo mediatico della Coppa America, ormai un po’ logorato dalle cronache di scandali, spionaggi, tribunali e miliardari al timone era apparsa una stella. Inaspettata, brillante e con un grande cuore.
Come un film
Salvatore Sarno aveva cominciato a ragionare sulla Coppa America nel 1999. Lui che era stato nocchiere sull’Amerigo Vespucci, comandante sulle petroliere e infine l’uomo della MSC-container in Sudafrica, non poteva che cercare in mare la strada per parlare al mondo del “nuovo” Sudafrica (e della propria azienda). «Ho pensato che si poteva mostrare al mondo che nel nuovo Sudafrica, neri e bianchi potevano fare qualcosa di buono lavorando insieme, e quale migliore palcoscenico se non quello della Coppa America?» ha dichiarato in una recente intervista. Ian Ainslie è il velista olimpionico sudafricano che immediatamente viene contattato. Ma Ainslie ha a sua volta un sogno. Dirige la piccola scuola di vela Izivunguvungu (“improvviso colpo di vento”, in zulu) a Simontown vicino a Città del Capo. Nella sua scuola oltre all’amore per il vento e il mare si insegna l’integrazione, il lavoro di gruppo tra ragazzi bianchi e neri, la voglia di lottare e di “non mollare mai”. Con l’intervento di Sarno la scuola diventa una fondazione (la Izivunguvungu MSC Foundation for Youth) e la fondazione la nursery per i futuri campioni.
All’inizio la barca su cui allenarsi è una “vecchia” Luna Rossa reduce della precedente edizione della Coppa e fatta arrivare ovviamente per nave, su una portacontainer. Una barca che aveva per nome una canzone cambia aspetto (diventa nera) e cambia canzone: nonostante la superstizione dei marinai per una volta almeno il cambio di nome porta bene.
Shosholoza imbarca velisti locali, bianchi e di colore e ragazzi con una storia che non ha nulla a che fare con la vela e molto a che fare con la strada, la determinazione e i muscoli ben addestrati. Ci si fa le ossa a Table Bay, il golfo davanti a Cape Town, con le onde e con il vento del Capo, rischiando tutto in una collisione con una balena, “fortunatamente restata illesa”, come precisano i comunicati stampa. Lo spinnaker ha il simbolo internazionale della lotta contro l’Aids. Da subito Shosholoza dimostra di non essere una barca qualsiasi, ma una barca con più di un messaggio dentro.
La Vecchia Brocca
Nel 2004 il nuovo scafo, realizzato a Napoli, era pronto per la competizione vera e propria (iniziata nel 2004 e terminata nel 2007). A bordo oltre ai ragazzi di Izivunguvungu salirono alcuni professionisti internazionali come lo skipper Mark Sadler e due azzurri di razza quali il timoniere Paolo Cian e il tattico Tommaso Chieffi.
Intanto Sarno aveva fatto tutti passi necessari perché la barca potesse essere ammessa tra quelle che potevano sfidare il detentore della “Brocca delle cento ghinee”, la mitica America’s Cup alla sua trentaduesima edizione.
La storia della brutta brocca liberty d’argento costata all’epoca appunto cento ghinee era iniziata nel 1851 quando lo shooner America la strappò di mano agli inglesi vincendo una regata di flotta attorno all’isola di Wight. La sua vittoria fu schiacciante. Si narra che alla giovane regina Vittoria interessata a sapere chi fosse l’inglese arrivato dopo gli americani fu risposto: «Non c’è secondo, maestà»! Da allora la Coppa è diventata un duello. Uno scontro uno contro uno (match race). Vincitore e sconfitto: nessun premio di consolazione.
Grazie anche al fatto che i regolamenti vengono scritti e cambiati dai vincitori la Coppa (che da allora si chiamò come la prima barca ad averla vinta), pur rimessa periodicamente in palio, è restata ben salda nelle mani del New York Yacht Club per 132 anni. Cambiò di mano per la prima volta per opera degli australiani, nel 1983 (la stessa edizione in cui partecipò la barca Italiana, Azzurra). Ritornata negli Usa, ma questa volta in California, fu strappata nuovamente di mano agli americani dai neozelandesi nel 1995, che la difesero molto bene contro gli attacchi Luna Rossa nel 2000, ma la persero contro Alinghi nel 2003.
Con Alinghi la competizione cambiò per l‘ennesima volta pelle.
Per la trentaduesima edizione il team svizzero sceglie Valencia, un campo di regata lontano dallo Yacht Club di riferimento (difficile gareggiare sul lago di Ginevra), ma soprattutto trasforma radicalmente l’evento. Da uno scontro quadriennale tra un difensore e uno sfidante (che dal 1983 è a sua volta il vincitore di una dura serie di regate tra sfidanti nota come Louis Vuitton Cup), si trasforma in quattro anni di regate in giro per il mondo. Sono i cosiddetti act della Louis Vuitton Cup: tredici serie di “combattimenti” preliminari prima dei round robin in cui si incorona il Challenger, e a cui straordinariamente può partecipare persino il difensore.
Una competizione mastodontica, costosissima, un po’ farraginosa, ma con un impatto mediatico senza precedenti che porta la popolarità della manifestazione a livelli mai visti, e attrae inaspettate new entry come la Cina e, appunto, il Sudafrica.
La quarta barca italiana
Salvatore Sarno, quando iscrive Shosholoza tra i challenger, sa dunque bene quanta visibilità il Sudafrica e l’MSC avrebbero potuto avere dalla partecipazione all’evento velico mondiale con la maggiore risonanza in assoluto. Storicamente il guanto della sfida viene lanciato tra Circoli velici d’altissimo bordo: lo Yacht Club del difensore e un gruppo di altri danarosi sfidanti in tutto il mondo. A Sarno non resta dunque che acquistare il vetusto e decadente Royal Sea Club di Capetown, ribattezzarlo Royal Cape Yacht Club e attraverso questo iscrivere la barca.
Nel 2005 Shosholoza, realizzata in Italia, con un patron italiano, e con due azzurri nell’equipaggio esordisce a Malmö in Svezia durante il sesto e il settimo dei tredici act della Louis Vuitton Cup riuscendo a sconfiggere il fortissimo team neozelandese. Ma è a Trapani, dove si tengono i due act successivi, che la barca sudafricana (ma con molta Italia dentro) dà il meglio di sé. Nei match race riesce a sconfiggere i team di Francia, Germania e Cina e nelle regate di flotta arriva quattro volte davanti a Luna Rossa e una volta davanti a New Zealand (che poi sarà lo sfidante finale).
La città si innamora della barca che d’altronde fa di tutto per farsi amare, appendendo alla fiancata uno striscione con la scritta “Siete voi lo spettacolo. Grazie Trapani!” in risposta alla calorosa e inattesa accoglienza. A tutti gli effetti Shosholoza era diventata, dopo Luna Rossa, Mascalzone Latino e +39, la quarta barca “italiana” alla trentaduesima America’s Cup e la sua anima migliore.
Un anno dopo, a Valencia (è il 2006), sempre nelle regate di flotta, la barca Sudafricana arriva per ben due volte davanti allo stesso Alinghi: inizia il mito. Come in tutte le favole che si rispettino molti cominciano a credere all’impossibile.
Nel 2007 gli undici sfidanti che si dividono il nuovissimo fronte mare di Valencia arrivano dopo quasi tre anni di competizioni. Hanno ormai bene in mente la superiorità tecnica del difensore svizzero che li ha stracciati durante gli act e sono corsi ai ripari: hanno cambiano le barche, affinano le strategie e modificato i team. I debuttanti sudafricani hanno un quarto del budget degli altri sfidanti, non hanno stelle di primissima grandezza nell’equipaggio né sponsor con portafogli illimitati. Modificano la barca che diventa più leggera e più adatta al Mediterraneo che alle onde e alle balene dell’Oceano meridionale, ma quello che non vogliono modificare lo spirito che li ha portati fino a lì.
«Abbiamo iniziato quest’avventura per mostrare al mondo il nuovo volto della democrazia sudafricana, per dimostrare che l’Africa non è solo la terra di zebre ed elefanti, ma un Paese ricco di cultura, passione e tradizioni. E l’America’s Cup era l’occasione perfetta per fare tutto ciò, Non siamo venuti per portare la Coppa America in Africa, ma per portare un pezzetto d’Africa in Europa» ha sottolineato il Comandante Sarno. Esserci era già una vittoria. Ma Shosholoza non molla.
Nei due Round Robin che avrebbero decretato lo sfidante grazie a una serie interminabile di match race riescono a vincere contro Mascalzone latino, Luna Rossa e +39 oltre che contro i team francese, tedesco e cinese, finendo settimi.
Titoli di coda
«La trentaduesima Coppa America resterà nella storia come la più bella competizione velica mai disputata», esagera Sarno parlando con i giornalisti. Deve spiegare al mondo come mai il suo sogno non può continuare quest’anno nelle acque di San Francisco. La storia di Shosholoza appartiene tutta all’epoca dei monoscafi dell’International America’s Cup Class (IACC). Grandi eleganti farfalle lunghe venticinque metri che potevano issare a riva oltre seicento metri quadri di tela, sfruttare il vento senza dominarlo, cavalcare le onde ma non volarci sopra. Da allora la Coppa ha cambiato un’altra volta pelle, regolamenti, barche e “anima”. E non solo per il gioco al rialzo nei budget richiesti, per la tecnologia sempre più spinta, per le velocità da formula 1 e i campi di regata fatti come piste da sci.
Dopo l’assurda dimostrazione di muscoli, tecnologia e miliardi della edizione del 2010 in cui si confrontarono solo due mostruosi multiscafi: il vincente trimarano USA Oracle ad ala rigida e il catamarano Alinghi, che perse la faccia e la Brocca, l’edizione 2013 (la trentaquattresima) è un “giro di boa”. Si corre con velocissimi catamarani ad ala rigida dalle prestazioni impensabili e dalle spettacolari (e pericolose) scuffie. Prima con ”piccoli” quarantacinque piedi nelle regate preparatorie delle World Series in giro per il mondo, poi con enormi settantadue piedi proprio sotto il Golden Gate. La nera barca sudafricana con tanta Italia dentro non è della partita. Ha già lasciato il suo segno nella storia, vincendo la sua personale coppa che vale molto di più di cento ghinee e che nessuno le potrà mai portare via.
Nicoletta Salvatori
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