L’Ice Bowl
Una sfida di ghiaccio bollente
«Molti di noi non avevano indossato i guanti e presentavano segni di congelamento. Ancora oggi, quando fa freddo, le mani e i piedi mi fanno male».
Non è la descrizione del Cocito, il lago ghiacciato dell’Inferno dantesco, bensì una dichiarazione di Lee Roy Jordan, ex giocatore di football americano, riguardo a una partita passata alla storia con il nome di Ice Bowl.
Non inganni l’assonanza con Superbowl, l’evento sportivo che incorona ogni anno i campioni della NFL, la Lega professionistica statunitense di football: di Ice Bowl ce n’è stato e ce ne sarà uno solo.
«Dovunque vada, la gente mi chiede se ho giocato l’Ice Bowl» racconta in un’intervista Forrest Gregg, ex offensive tackle noto anche come Iron Man.
Il 31 dicembre 1967 allo stadio Lambeau Field di Green Bay, nel Wisconsin, si affrontano i Green Bay Packers e i Dallas Cowboys. La posta in palio è alta: la franchigia vincente andrà a giocarsi il Superbowl quindici giorni dopo.
I Packers degli anni Sessanta, una delle squadre più forti di sempre, sono trascinati da due leader che rispondono ai nomi di Bart Starr e Vince Lombardi. Il primo è il quarterback, il faro della squadra in campo, l’uomo che manda i compagni in meta con i suoi lanci chirurgici per precisione e tempismo. Il secondo, oltre che capo allenatore dei Packers, è un autentico monumento del football, tanto che dopo la sua morte la coppa sollevata dai vincitori del Superbowl è stata battezzata in suo onore Vince Lombardi Trophy.
I Cowboys arrivano a Green Bay con tanta pressione sulle spalle per aver perso con i Packers nei play-off della stagione precedente, ma anche con la consapevolezza di essere cresciuti molto nel frattempo. A guidare i texani dalla side line c’è Tom Landry, undici anni più giovane di Lombardi e una carriera da grande giocatore alle spalle. I due peraltro si conoscono bene per aver lavorato insieme nello staff tecnico dei New York Giants. Tra le tante stelle nella squadra di Dallas spicca quella del ricevitore Bob Hayes. Non è un caso se lo chiamano Bullet Bob, Bob il proiettile, visto che prima di passare alla NFL il ragazzo ha fatto lo sprinter laureandosi campione olimpico nel 1964 con tanto di record del mondo sui cento metri piani.
Condizioni al di là del possibile
Non sono però solo i nomi dei protagonisti a dare la misura dell’unicità dell’evento. «L’Ice Bowl è diventato leggenda per l’importanza della posta in palio, ma anche per le condizioni in cui fu giocato» afferma Lance Rentzel, autore quel giorno di un touchdown per Dallas.
Quel 31 dicembre, infatti, è entrato negli annali come l’ultimo dell’anno più gelido della storia di Green Bay. Non stiamo parlando di una giornata fredda a Copacabana: qui siamo sul Lago Michigan, a pochi chilometri dal Canada, e quando si parla della fine dell’anno più fredda di sempre si parla di -26° C.
Frozen tundra, tundra congelata: è così che si presenta il terreno del Lambeau Field, duro come il cemento armato e scivoloso quanto una pista da pattinaggio su ghiaccio.
In queste condizioni, se sopravvivere è già un’impresa, riuscire anche a giocare a football è un autentico atto di coraggio, una sfida che va al di là delle capacità umane.
Nonostante le condizioni critiche, il rinvio della partita non viene preso in considerazione a causa degli impegni già sottoscritti con le televisioni.
Si comincia, quindi, con Green Bay che parte fortissimo. Starr illumina Boyd Dowler mandandolo a segnare due touchdown: 14-0 e per i Cowboys è notte fonda nonostante il cielo terso spazzato dal vento.
Le cose però cambiano e un fumble di Starr regala a Dallas la meta per rientrare in partita. All’intervallo il punteggio è 14-10 e la Doomsday Defense, la difesa del Giorno del Giudizio dei Cowboys, sembra imbrigliare l’attacco di Lombardi.
Mentre le squadre vanno negli spogliatoi, sugli spalti i cinquantamila presenti attendono la performance musicale della banda per riuscirsi a scaldare almeno il cuore. Fa però troppo freddo e i fiati non riescono a suonare. Ci vuole davvero tutta la passione dei tifosi dei Packers per rimanere lì a spingere la squadra in attesa del secondo tempo, mentre il sole cala e la temperatura si fa ancora più polare…
Il terzo quarto è dominato dai Cowboys, che tuttavia non trovano il touchdown del sorpasso. Hayes è troppo prevedibile: quando gli schemi non lo coinvolgono l’ex centometrista corre le sue tracce con le mani in tasca al riparo dal gelo, mentre quando si aspetta di ricevere l’ovale le libera nell’aria tagliente e la difesa di Green Bay lo può leggere come un libro aperto. L’attacco di Dallas ha però diverse altre frecce da scoccare e all’inizio dell’ultimo quarto Rentzel trova un’autostrada davanti a sé per il touchdown del 17-14.
È la fine di una dinastia? Forse per una squadra di umani, ma non per questi Packers. Starr sferra l’ultimo attacco della partita e, in condizioni estreme, con un drive perfetto guida Green Bay fino a una yard dalla meta.
A questo punto la soluzione migliore sembra quella di andare con le corse. La palla va a Donny Anderson, il running back, per sfondare la linea dei Cowboys e guadagnare quegli ultimi centimetri difesi alla morte da Dallas, che fanno la differenza tra vittoria e sconfitta. Anderson tenta di arrivare in meta due volte correndo dritto e forte, ma non c’è niente da fare: scivola in entrambi i casi prima di infrangersi contro il muro dei Cowboys.
Il colpo risolutivo
Green Bay chiama l’ultimo timeout a disposizione a sedici secondi dalla fine perché Lombardi vuole parlarci su con il suo quarterback. I Packers potrebbero calciare un comodo field goal da tre punti per pareggiare e portare la partita all’overtime, ma quando Starr si avvicina al coach la risposta è: «Corri e togliamoci di qui, diamine». O tutto o niente, senza mezze misure.
C’è una frase del film Amici Miei che si adatta particolarmente a questa narrazione: «Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione». A essa bisognerebbe aggiungere: è anche semplicità. E così, il match di cui ancora si parla a distanza di oltre quarant’anni viene risolto dalla giocata più banale che esista, una quarterback sneak.
Invece di andare al passaggio, Starr sfrutta i blocchi dei compagni di linea e tiene la palla stretta al petto per portarla più in avanti di una yard, soltanto una yard, ma quanto basta per far spuntare il sorriso sul volto di Lombardi, mandare in estasi i cinquantamila del Lambeau Field ed entrare di diritto nella leggenda dello sport.
Daniele Canepa
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