Diplomazia del ping pong
Quando una pallina mosse l’asse mondiale
Quando Glenn Cowan perse l’autobus, una lontana mattina di aprile del 1971, probabilmente non immaginava che quella distrazione avrebbe cambiato il corso della storia.
Colto alla sprovvista dalla chiusura imminente dello stabilimento sportivo nel quale si era attardato per allenarsi, all’uscita dovette confrontarsi con un’amara realtà: tutti i membri della sua squadra avevano fatto ritorno all’albergo da un pezzo, senza di lui. L’entusiasmo per il ping pong l’aveva travolto facendogli perdere il senso del tempo che, ora, lo puniva implacabile con un’attesa inaspettata, in completa solitudine, in una città sconosciuta come Nagoya (Giappone).
L’imbattibile tattica di gioco giapponese era sempre stata per il tennistavolista statunitense fonte di ispirazione, per questo proprio non aveva resistito al desiderio di spiarla più da vicino ora che finalmente aveva l’occasione di trovarsi faccia a faccia con dei professionisti in carne ed ossa.
Si stava disputando il trentunesimo campionato mondiale di ping pong; le giornate dedicate esclusivamente allo sport, al miglioramento della propria prestazione, avevano talmente assorbito Cowan da confinarlo quasi in un’altra dimensione.
E, in effetti, l’inconveniente dell’autobus lo catapultò in quello che, agli occhi di un americano, a quei tempi doveva apparire davvero come un mondo parallelo. Per non prolungare la sua attesa venne caricato a bordo di un pullman in partenza. L’imbarazzo di Glenn fu tangibile quando, con i suoi capelli lunghi, i pantaloni a bottoni e la maglietta con la scritta USA, si trovò di fronte ad un’intera squadra di giocatori cinesi: erano cresciuti nel culto dei pregiudizi di piena guerra fredda, in Cina lo slogan “Abbasso l’imperialismo americano!” imperversava e gli americani, da parte loro, individuavano nel comunismo di Mao la replica della minaccia russa.
Seguirono momenti di tensione, nessuno sapeva come comportarsi di fronte all’intruso statunitense. Trascorsi dieci minuti di viaggio, a breve distanza dall’arrivo, Zhuang Zedong tentò l’approccio che avrebbe scosso l’asse politico mondiale. Si avvicinò all’americano e, con l’aiuto dell’interprete, gli rivolse la parola dando così inizio ad una conversazione amichevole, che sarebbe apparsa del tutto ordinaria in circostanze differenti. Al termine, Zedong donò a Cowan un dipinto su seta raffigurante le montagne di Huangshan per festeggiare il loro incontro con un gesto di riconoscenza. Subito Glenn volle ricambiare, ma non aveva nulla con sé a parte un pettine che giudicò un omaggio poco appropriato. Rimediò più tardi regalando a Zedong una maglia dipinta con i colori della pace che recava sul dorso il titolo della famosa canzone dei Beatles Let it Be.
La complicità fra i due giocatori di nazionalità opposte mandò in visibilio i giornalisti che immortalarono la stretta di mano: un’immagine simbolica destinata a fare il giro del mondo.
Nessuno volle lasciarsi sfuggire lo scoop del secolo, immediatamente Glenn venne assediato da domande del genere: «Le piacerebbe visitare la Cina, signor Cowan?».
«Mi piacerebbe visitare tutti i Paesi che non ho mai visto» rispose lui diplomaticamente «e di certo, fra questi, anche la Cina».
Il disgelo Usa-Cina
La risonanza mediatica dell’evento pose i capi di stato di fronte ad un confronto necessario quanto inevitabile. Mao Tse-Tung lesse la notizia su Dacankao, un giornale riservato alle più alte cariche del governo, e comprese l’avvicinarsi di un momento da lui già preannunciato. Un anno prima, in occasione della festa nazionale in piazza Tienamnen, Mao disse ad Edgar Snow che la Cina doveva riporre le sue speranze nel popolo americano. Un discorso che Zedong, fedele sostenitore del Timoniere, ricordava bene e a cui si era ispirato nell’ingraziarsi la simpatia del giovane americano.
Mao non nascose la sua approvazione: «Zedong non è solo un grande giocatore di ping pong, ma anche un ottimo diplomatico».
Le poche parole ben assestate dallo sportivo-diplomatico avevano fornito a Mao su un piatto d’argento l’opportunità di giocare lo scacco matto tanto atteso. I rapporti fra Cina e Urss si erano mantenuti su un filo costante di tensione: il primo incontro fra Tse-Tung e Stalin, nel 1949, non ebbe ripercussioni positive sul leader cinese che apostrofò il bolscevico come “semicolonialista.”
Inoltre i rapporti con l’Unione Sovietica subirono un progressivo deterioramento con l’arrivo di Nikita Chruščëv al Cremlino, accusato dai dirigenti cinesi di adottare una politica “revisionista” che tradiva la causa del proletariato mondiale. La tensione crescente aveva costretto Mosca a ritirare dalla Cina i suoi tecnici, paralizzando così numerosi progetti di sviluppo.
Di conseguenza la situazione si era congelata su un piano di incomunicabilità dal quale il governo cercava da tempo una via d’uscita: ed ecco che il disgelo veniva compiuto da un gioco, il ping pong.
Si delineava all’orizzonte la possibilità di un’alleanza con l’America, destinata ad abbattere i pregiudizi costruiti in anni di mediazioni negate.
Le trattative cino-americane andarono a buon fine e ben presto Glenn Cowan vide esaudito il suo desiderio di visitare l’Impero Orientale. Il 10 Aprile 1971 sette giocatori, quattro uomini e tre donne, della squadra di tennis tavolo americana raggiunsero la Cina direttamente da Hong Kong.
Gli statunitensi si trattennero per una settimana fra Pechino e Shanghai, visitando gli incanti ignoti della città proibita, assistendo a spettacoli di danze orientali e disputando incontri amichevoli di ping pong. In segno di solidarietà utilizzavano delle racchette su cui erano raffigurate da un lato la bandiera cinese e, dall’altro, quella statunitense. La pallina bianca rotolava sul tavolo e, ad ogni rimbalzo, un piccolo tonfo sordo sembrava riassestare l’equilibrio spezzato. Era la prima volta che un americano metteva piede in territorio cinese dal 1949.
Una spedizione rischiosa
L’inaspettato invito proposto alla delegazione americana fu accolto con non pochi dissidi all’interno della squadra. L’entusiasmo per il viaggio imprevisto era eclissato dal timore per la fragile situazione politica dei tempi. Alcuni giocatori rifiutarono con un pretesto, in realtà preoccupati per ragioni di sicurezza. E, perfino tra coloro che accettarono di partire, non mancavano inquietudini: erano stati designati per una spedizione unica: se la meta fosse stata la Luna, anziché il territorio cinese, non avrebbero percepito grandi differenze.
Del gruppo dei temerari faceva parte una ragazzina di appena quindici anni, Judy Bochenski Hoarfrost, proprio per la sua giovane età sprezzante del rischio e animata dalla curiosità di visitare un paese sconosciuto. Il padre le diede novecento dollari perché sostituisse un giocatore nel campionato di Nagoya, e quello scambio fortuito l’avrebbe arruolata in un’impresa storica che, ancora oggi, a cinquant’anni compiuti, rimane impressa nella sua memoria. In quell’occasione fu immortalato lo scatto poi stampato in prima pagina sui quotidiani di tutto il mondo: una ragazzina bianca, capelli castani e occhi azzurri, stringeva la mano al primo ministro cinese Zhou Enlai.
Il mito di Zhuang Zedong
Terminata la visita americana nell’Impero d’Oriente è il turno della federazione cinese, capitanata da Zhuang Zedong, che parte alla volta del Nuovo Mondo. L’uomo che aveva rivolto la parola al diciannovenne Cowan non era una persona comune, in Cina veniva considerato alla stregua di un eroe popolare e sapeva bene il fatto suo. Zhuang Zedong, dieci anni di carriera e nessuna sconfitta, annoverava vittorie in tre campionati mondiali: Pechino 1961, Praga 1963 e Lubiana 1965.
Il suo stile di gioco si basava su una tattica completamente innovativa: maneggiava la racchetta come se fosse una penna e potenziava i suoi rovesci impartendo colpi sul modello delle arti marziali. Le sue prestazioni l’avevano reso una celebrità, lo stesso Mao Tse-Tung incollava lo sguardo al televisore per assistere alle sue partite, incoraggiandolo con la sua direttiva personale: «Guarda la palla e pensa che sia la testa del nemico capitalista. Poi colpiscila con la nostra battuta socialista!». Proprio avendo intuito il potenziale politico dello sportivo, Mao non tardò ad immergere il giovane Zedong nei primi fervori della Rivoluzione Culturale. Fu il favore del Timoniere a proteggerlo quando le istituzioni sportive furono dichiarate un bastione dell’anti-maoismo e, di seguito, smantellate. In quel periodo una sorta di Inquisizione incombeva sugli atleti: denunce ed arresti erano all’ordine del giorno. Perfino l’allenatore di Zhuang, Fu Qifang, fu accusato di spionaggio ed indotto a togliersi la vita con l’impiccagione.
Zedong, grazie alla sua nuova carica di Ministro dello Sport, fu immune da ogni rischio. Inoltre, fu tutelato dalla moglie di Mao, l’intrigante Jiang Qing, che lo custodì sotto la sua ala ammettendolo alla fazione da lei capeggiata La Banda dei Quattro. Vociferano indiscrezioni su una relazione fra i due, sempre smentite da Zedong che definì la signora Qing come una seconda madre.
In ogni caso, da sportivo di successo Zhuang si ritrovò a macchiarsi le mani con i loschi affari del regime: le sue abilità diplomatiche vennero sfruttate per assolvere compiti sordidi. La caduta di Mao lo porrà di fronte alla gravità dei suoi misfatti. I suoi legami con la Banda dei Quattro gli varranno quattro anni di confino in un campo di prigionia, senza contatti con l’esterno.
Dovrà attendere anni prima di far ritorno a Pechino, dove giunse come purificato, per dedicare il suo tempo alle giovani promesse del ping pong e alla musica, sua grande passione. Nei suoi ultimi anni Zedong pubblicò un libro, in cui raccolse le sue memorie rammentando anche l’indimenticabile incontro che diede origine alla “Diplomazia del Ping Pong”.
E fino alla morte, avvenuta il 10 febbraio 2013, ripeté che il rimpianto più grande della sua vita fu di non aver mai potuto rivedere Glenn Cowan, deceduto nel 2004.
Insieme avevano scritto una pagina di storia, quel mattino di aprile, quando entrambi non conoscevano le intricate vie dei loro destini, ma scorgevano un solo futuro ad accomunarli, battuto a colpi di racchette ai mondiali di Nagoya.
Alice Figini
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