Gino Bartali. Il Giusto
Ginettaccio oltre l'”Airone”
Lo confesso, io ho sempre tenuto (come si diceva una volta) per l’“Airone”. Sto parlando di Fausto Coppi, naturalmente.
No, non perché ho trepidato per lui e per le sue leggendarie imprese sportive. Non ho mai ascoltato alla radio la voce spezzata dall’emozione di Mario Ferretti («Un uomo solo è al comando. La sua maglia è biancoceleste. Il suo nome è Fausto Coppi»). Né il mio cuore ha mai sussultato nel leggere sulle pagine della rosea la cronaca dei suoi attacchi all’infernale Mont Ventoux o le discese a rotta di collo giù dai tornanti dell’infido Puy de Dôme. Né, infine, sono mai stato sul ciglio delle strade polverose del Giro nell’attesa di veder sfrecciare quel moderno centauro a due ruote, per poi conservarne gelosamente il ricordo nel mio cuore di tifoso.
No, niente di tutto questo. La verità è che io non ho mai conosciuto Fausto Coppi. La ragione è banale: sono venuto al mondo un anno dopo la sua morte. Eppure, come tanti altri miei coetanei, in qualche modo mi sono trovato lo stesso a parteggiare per lui, in una sorta di curioso tifo post-mortem.
Strano? Forse. O forse no. C’è da dire, infatti, che a dispetto della sua scomparsa l’eco delle vittorie del “Campionissimo” ha continuato a riverberarsi per tutti gli anni Sessanta, scemando – ma mai del tutto – solo all’inizio del decennio successivo. Perfino la sua leggendaria rivalità con Gino Bartali non solo non è mai venuta meno, ma per qualche anno è parsa radicalizzarsi ancora di più.
Il fatto è che c’era la famiglia. Anzi, la Mia Famiglia.
Eh sì, perché nonostante genitori e nonni fossero tutti toscani o abitanti tra la valle del Serchio e quella dell’Arno, per qualche strana ragione tifavano tutti – ma proprio tutti – per il campione piemontese. Una sorta di tradimento geografico, il loro – ancora più sorprendente, se si pensa al tradizionale sciovinismo toscano –, che non ha mai trovato una spiegazione convincente.
Esclusa, infatti, la politica: uno dei nonni era comunista, è vero, dunque potenzialmente in antipatia con l’atleta fiorentino, democristiano fino al midollo e con sospette simpatie destrorse. L’altro vegliardo, però, era nostalgicamente fascista – siamo negli anni Cinquanta-Sessanta, immaginatevi quali convivialità si scambiavano i consuoceri quando s’incontravano –, nonché raffinato cultore di ogni elemento – artistico, sportivo, politico – fosse nato e germogliato nella terra di Dante.
Esclusa anche la religione o la morale: entrambi i vecchi erano credenti e andavano regolarmente a messa – sì, pure il comunista che sul comodino ha tenuto fino alla fine dei suoi giorni le foto di Lenin e di papa Giovanni –, a riprova che ai suoi tifosi la condotta del “Campionissimo”, una volta sceso dalla bicicletta (inutile che io stia qui a ricordare la storia della “Dama Bianca”, la conoscono anche i sassi), importava fino a un certo punto.
E allora? Vallo a capire. In effetti l’argomento non si presta a spiegazioni razionali. La scelta di una squadra o di un atleta del cuore, così come tutti gli innamoramenti e le passioni di questo mondo, non rientra negli schemi propri della ragione, ma affonda le radici all’interno dei nostri cuori, più che delle nostre menti, alimentata da un fuoco che non è possibile spiegare, né riprodurre. Né – quasi mai – estinguere.
Ecco perché tengo per Fausto Coppi: ho ereditato il tifo dalla mia famiglia. Nella gara di tappini sull’asfalto, in cui un gesso rubato a scuola disegnava improbabili tappe per i nostri personalissimi giri d’Italia, io sceglievo l’“Airone”. Immancabilmente. Anche se era morto da anni.
Non che i miei amici fossero da meno. A parte i due o tre che s’identificavano nei campioni moderni – Felice Gimondi, Eddy Merckx e Raymond Poulidor, tanto per fare dei nomi –, la maggior parte di noi vestiva i panni di ciclisti già in pensione o passati a miglior vita, come Rik Van Steenbergen, Fiorenzo Magni e Louison Bobet. Ricordo, distintamente, un ragazzino magro magro che, fino all’adolescenza, ha voluto essere Luigi Ganna. Il vincitore del primo Giro nel 1909.
Tutto questo preambolo per dire da che parte sto.
Col tifo per Coppi, naturalmente, ho ereditato anche un’antipatia viscerale nei confronti di Bartali. Ovviamente, come l’amore, anche in questo caso l’odio (sportivo, of course) risulta totalmente immotivato. Basta leggere l’incredibile palmarès del Ginettaccio nazionale per capire che razza di stoffa sportiva avesse l’atleta fiorentino. Sembra addirittura che una sua vittoria al Tour del 1948 – si dice, forse esagerando o forse no – riuscì a disinnescare lo scoppio di una guerra civile in Italia. Una cosa seria, altro che quella – ridicola – evocata dagli improbabili politici di oggi. Eravamo infatti all’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti.
Però il tempo passa e qualcosa, inevitabilmente, cambia. A poco a poco. Goccia dopo goccia. No, non che oggi io non mi senta più un vero coppiano. Quello sono e quello resterò per sempre. A modificarsi, invece, è il mio antibartalismo (chissà se si dice così). E di tanto, anche.
Gino Bartali, fedele fino in fondo al suo personaggio, muore nel 2000. Da allora non passa anno senza che non si venga a sapere di altre sue vittorie, rimaste sconosciute per troppo tempo. Vere e proprie imprese mai registrate sui giornali, né riportate sui referti di gara. Medaglie che valgono più di tutte le maglie rosa e gialle conquistate in carriera. Gare senza pubblico, senza tifo, senza radio al seguito, ma centomila volte più dure delle salite sui Pirenei col sole a picco, un milione di volte più pericolose delle picchiate a ottanta all’ora giù dai monti di Briançon.
Vittorie che hanno il sapore, il colore e il profumo della generosità.
Semplicemente, si viene a sapere che, in tempo di guerra, Bartali salva – a rischio della sua stessa vita – un numero incalcolabile di perseguitati: antifascisti, dissidenti e tanti, tanti ebrei. Lui, cattolico dalla testa ai piedi, quasi un insopportabile bacchettone baciapile, in un’epoca in cui a dottrina i preti t’insegnano che i Giudei hanno ammazzato il Nazareno, non esita a entrare come elemento attivo in una rete clandestina che mira a sottrarre dalla deportazione uomini, donne e financo bambini lontani, anzi lontanissimi, dal suo credo politico e dalla sua fede religiosa.
Negli anni bui del conflitto il Ginettaccio nazionale continua ad inforcare la sua bici ogni volta che può. Si sa, lui è un campione e anche in guerra non può stare fermo. I muscoli rischiano di sgonfiarsi, il motore di imballarsi. Ecco allora che prende la sua due ruote e si mette a fare la spola tra Firenze e Assisi. Un itinerario accidentato, ricco di curve e di saliscendi, su strade dure e polverose. L’ideale per tenersi in allenamento. Gino arriva nella cittadina umbra, tira il respiro, poi torna indietro. Diverse volte al mese. Ogni tanto lo fermano le Camicie Nere, poi però lo riconoscono e lo lasciano andare con grandi sorrisi e incoraggiamenti. Non prima di essersi fatti rilasciare un autografo.
Diavolo, lui è Bartali!
Già, è Bartali. Non sanno, le Camicie Nere, che nella canna della sua bicicletta il campione fiorentino nasconde foto e documenti falsi da portare agli ebrei fiorentini. Eh già, perché tra il capoluogo toscano e la città di San Francesco si è attivata una rete clandestina che da una parte comprende il cardinale Elia Angelo Dalla Costa e il rabbino capo Nathan Cassuto e dall’altra il vescovo Giuseppe Placido Nicolini e alcuni religiosi dal cuore grande, come don Aldo Brunacci e padre Rufino Niccacci. Terminale – e nodo cruciale – dell’organizzazione è la tipografia umbra di Luigi e Trento Brizi.
La cosa funziona così. Bartali scende da Firenze portandosi dietro le foto di persone in pericolo per le loro idee e la loro appartenenza religiosa. Una volta in Umbria le istantanee vengono applicate dai fratelli Brizi su documenti falsi, freschi di stampa, e riportati indietro. Arrotolati nella canna della sua bicicletta. Dove nessuna Camicia Nera penserà mai di dare un’occhiata.
Diavolo, lui è Bartali!
Già, è Bartali. L’”Uomo Bartali” che sfrutta il “Campione Bartali” per salvare la vita a tanta gente. Grazie a lui decine di famiglie dal cognome come Grossman, Modena, Luzzati si trasformano magicamente in Rossi, Bianchi, Esposito. E la scampano.
Così come la scampa lui, alla fine entrato nel mirino delle autorità, anche se non riusciranno mai a provare alcunché. Anzi, non potendo più fare la spola tra Toscana e Umbria, il campione si mette in casa, ben nascosto, un perseguitato ebreo che, così, ha salva la vita.
Queste cose le sanno solo i familiari, perché Gino, finché è in vita, proibisce a tutti di divulgarle. Perché queste cose si fanno, ma non si dicono. Poi, però, il campione muore e queste cose, poco alla volta, vengono alla luce. Ma sempre con grande pudore, quasi con vergogna, perché non si capisce come affermare la propria umanità debba colpire così tanto l’immaginario della gente.
«Macché! Ho solo fatto ciò che gli era giusto» sembra quasi di sentirlo dire, spalancando i suoi occhi vivaci sull’ipotetico interlocutore.
Altro che Mont Ventoux! Altro che Puy de Dôme! Altro che maglie rosa, gialle e a pois!
Queste, signore e signori, sono vittorie vere, imprese epiche, le vere tappe che meritano di essere ricordate.
Perché io resto sempre un coppiano, ci mancherebbe. Come faccio a tradire l’ammirazione che mi è stata trasmessa dalla famiglia per questo immenso campione? Semplicemente non posso.
Però ora tengo anche per Bartali. Col cuore e con l’anima. Lo sento vicino, lo vedo un esempio, un giorno lo racconterò a mio figlio.
«L’è tutto sbagliato! L’è tutto da rifare!» amava ripetere, brontolando, il campione fiorentino.
No, non proprio tutto, caro Gino, ovunque tu ora sia.
Tu non eri sbagliato per niente.
Tu eri uno Giusto.
Marco Della Croce
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aggiornamento
Il 23 settembre 2013 Gino Bartali è stato dichiarato Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’olocausto fondato nel 1953, riconoscimento per i non ebrei che hanno rischiato la vita per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni naziste.
Un ricordo che strappa l’anima. Grazie.
Ciò che colpisce di questa vicenda è il non aver mai voluto rendere noto, da parte di Bartali e della sua famiglia, questa storia così straordinaria e così… umana. Altri tempi (ahimé) e altro spessore. Grazie Ersilia per l’apprezzamento (mdc).
Articolo bello ed entusiasmante, come le sue vittorie. Complimenti! Aggiungo solo che l’episodio di Bartali che aiuta gli ebrei viene raccontato nel film del 1985 Assisi Underground.
… cerchiamo subito il film!