Irina Karavayeva
La donna che sconfisse la forza di gravità
Sarà perché se nasci a Krasnodar, tra la pianura del Caucaso e le coste del Mar Nero, sognare è l’unico modo per sconfiggere il gelo della realtà che ti circonda. Sarà che se per professione ti tocca saltare così in alto da credere di poter volare, allora hai trovato un modo per mantenere anche da grandi l’entusiasmo dei bambini senza che nessuno ti possa accusare di essere infantile. Sarà quel che sarà, ma per Irina Karavayeva il trampolino elastico è stato amore al primo balzo.
Accantonato presto il sogno di diventare medico o veterinario, la ginnastica è diventata fin da bambina la passione da seguire. Qualche mese con le discipline “tradizionali”, prima di virare sulla nuova specialità. Una sorta di ideale fusione tra danza e circo: si salta, si rotea, ci si capovolge, si guarda il mondo dall’alto in basso e un attimo dopo dal basso in alto sbeffeggiando per qualche secondo la forza di gravità prima di sedersi per attendere il verdetto dei giudici. Il trampolino elastico è entrato a far parte della grande famiglia olimpica soltanto dai giochi a cinque cerchi di Sidney nel 2000.
Vincere e rivincere
E in quell’occasione a scrivere il proprio nome nell’albo d’oro della “neonata” disciplina era stata proprio lei: Irina Karavayeva da Krasnodar, classe 1975, al termine di un esercizio semplicemente perfetto. Non è stata una sorpresa: ha vinto tre europei, altrettanti mondiali e un’infinità di riconoscimenti internazionali. Ha nobilitato il trampolino elastico accompagnandone la crescita da inizio anni novanta sino al nuovo millennio: una continuità di rendimento difficile da riscontrare in uno sport che logora muscoli e nervi con la stessa voracità. Frutto di un fisico minuto ideale per compiere acrobazie e di un’infinità di ore di allenamento in palestra.
Perché la ginnastica non concede sconti: il talento è necessario ma non sufficiente per eccellere. Basta una pausa, un momento di riposo e le rivali sono già pronte per scavalcarti, ribaltando gerarchie che apparivano consolidate da tempo. Una forza di volontà così straordinaria da portarla a conquistare il titolo iridato anche nel 1999 nonostante lancinanti dolori alla schiena. I dottori le avevano suggerito di rinunciare alla gara, lei ha preferito fare di testa propria e si è regalata un altro oro. Sono seguiti due mesi di ospedale e fisioterapia, ma era ed è ancora convinta che il gioco valesse la candela.
Ha dominato la disciplina in punta di piedi, sorridendo prima e dopo le gare e sperimentando virtuosismi sconosciuti prima di lei: da cineteca la sua performance da coefficiente di difficoltà pari a 15.60 che era valso il record del mondo. Un gusto per la sfida assoluto: superare le avversarie e i propri limiti senza però isterismi, sofferenze e angosce tipiche del proprio mondo. Quante ginnaste abbiamo visto trionfare senza mai essere felici? Quante tra loro hanno dovuto ricercare la perfezione perché costrette da allenatori stressanti o da genitori desiderosi di trasformare le figlie in macchine da soldi? Non era il caso di Irina che aveva nel trampolino il suo gioco preferito. Si divertiva e faceva divertire chi aveva la fortuna di ammirare le sue evoluzioni in aria.
Il Gran Rifiuto
Ma il vero capolavoro, quello che le ha permesso di uscire dalla storia della sua specialità per entrare nella leggenda, lo ha realizzato in una gara che non ha vinto. O forse sì. Andiamo con ordine: Mondiali di Odense del 2001. Irina Karavayeva completa il suo esercizio. Elegante, spettacolare, ma macchiato da un paio di imprecisioni. Nulla di eclatante ma sbavature che non potevano passare inosservate per una perfezionista come lei. I giudici, però, non la puniscono e decretano da oro la sua esibizione consegnandole di fatto il titolo iridato. Le basterebbe fare i ringraziamenti di rito, appuntare un altro oro nella propria bacheca e posare per le solite foto che immortalano il vincitore. E invece dichiara subito la propria insoddisfazione: «Sono molto dispiaciuta perché non è stato premiato l’esercizio migliore. Oggi Anna Dogonadze è stata la più brava».
Sembrano parole – belle parole, per carità – ma fini a sé stesse: frasi da premio Fair Play destinate, però, a rimanere tali. E invece Irina non ci sta e richiede ufficialmente che il responso della gara venga sovvertito: la campionessa del mondo consacrata dai giudici pretende che la medaglia d’oro sia consegnata alla seconda classificata. La Federazione Internazionale della ginnastica non sa cosa fare. Da un punto di vista formale, il regolamento non prevede la possibilità di ribaltare il risultato dopo la conclusione della gara. Poi prevale il buonsenso. Perché scontentare la tedesca che meritava quel successo e la russa che quel successo non lo vuole? E così fermi tutti. I mondiali sono già andati in archivio da un pezzo ma viene indetta una nuova cerimonia ufficiale.
All’Akita Dome, nel nord del Giappone, seimilacinquecento persone si alzano in piedi per tributare la giusta standing ovation che sancisce un momento storico tanto da poter fare giurisprudenza sportiva. Così come i bambini si scambiano le figurine dei campioni, le due campionesse si scambiano le medaglie. La Karavayeva ascolta anche l’inno tedesco prima di suggellare la cerimonia con un abbraccio all’amica-rivale. Dato che qualcuno capace di essere inopportuno si trova sempre, un giornalista storce il naso e chiede se non ci sia qualcosa di promozionale dietro quest’atto di buonismo. Per una volta, Irina perde il sorriso e risponde fermamente: «Personalmente io non ho invitato né lei né gli altri cronisti che sono oggi presenti. Fosse stato per me, avrei ridato la medaglia alla Dogonadze anche senza gli occhi di nessun altro». Il giornalista a quel punto vorrebbe scomparire. In fondo, però, ha avuto soltanto più faccia tosta di tanti altri che pensavano come lui che certi gesti appartenessero soltanto ad un’altra epoca, ammesso che ce ne sia mai stata una in cui qualcuno potesse pensare che si potesse vincere rinunciando alla vittoria.
Ed è anche per questo che il mondo dello sport sarà debitore a Irina Karavayeva, una campionessa così straordinaria da essere più grande anche della disciplina che ha dominato per oltre un decennio.
Roberto D’Ingiullo
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