Il caso Denis Bergamini
La sorella Donata: la mia lotta per la verità
Ottomilaseicentosettantotto giorni. Li conta uno a uno, a distillare il dolore, a rimarcare una ferita che il tempo non rimargina. Ventiquattro anni. Quasi metà della sua vita, quasi tutta la vita di suo fratello Denis. Donata Bergamini porta il suo stesso caschetto biondo, la sua storia in un sorriso dolceamaro. La racconta e la cerca, perché la fine di quel fratello è ancora un mistero.
Donato “Denis” Bergamini, centrocampista del Cosenza, muore sulla statale 106 Jonica il 18 novembre 1989. Secondo la testimonianza della ex fidanzata Isabella Internò, con lui al momento della tragedia, si sarebbe tuffato sotto le ruote di un camion che avrebbe trascinato il suo corpo per sessanta metri. Quattro ore dopo l’accertamento del decesso, il caso è archiviato come suicidio.
«Quando mio marito mi comunicò la notizia della morte di Denis – confida Donata a Storie di Sport – riferendomi che secondo gli inquirenti si era tolto la vita, pensai che preso dal dolore avesse capito male».
Suicida quel ragazzo così pieno di energie, che non aveva esitato a lasciare la sua Emilia e i suoi affetti per diventare un calciatore professionista? Che aveva conquistato i tifosi cosentini contribuendo alla storica promozione dei Lupi in Serie B, ed era appena stato contattato da prestigiosi club di Serie A? Che amava i gavettoni, la musica e i motori, e dichiarava ai giornalisti «Mi piace vivere»?
Nel giugno 2011 la Procura di Castrovillari, su richiesta del legale della famiglia Bergamini, Eugenio Gallerani, ha riaperto le indagini, notificando nel maggio scorso un avviso di garanzia a Isabella Internò per concorso in omicidio volontario. Le perizie dei RIS di Messina e del medico legale dimostrerebbero che Denis era già morto prima che il suo corpo fosse investito dal camion. Ucciso.
«La riapertura del caso due anni fa è stata una sorpresa bellissima» ricorda Donata. «Ero al lavoro e avendo il cellulare spento ero irraggiungibile. Quando l’ho acceso, mi sono ritrovata una marea di messaggi, sono corsa a casa e in famiglia tutti piangevamo di gioia. Il commento comune è stato: “Solo l’avvocato Gallerani poteva riuscirci“: tutti noi abbiamo visto il lavoro disumano che ha fatto per approfondire e cercare elementi utili al dossier presentato alla Procura di Castrovillari».
La tua famiglia ha rivendicato invano il diritto alla verità sulla morte di Denis per oltre vent’anni. C’è stato un momento in cui avete pensato di mollare?
«Neanche uno. Lo dimostra tutto il materiale che abbiamo raccolto e conservato in questi anni: fascicoli, perizie, lettere, articoli. Aspettavamo solo il momento giusto per rivolgerci nuovamente all’autorità giudiziaria. La difficoltà maggiore era la ricerca di un legale al quale affidare un incarico così complicato».
Vi siete mai sentiti soli in questa lunga e logorante battaglia?
«Siamo stati soli per vent’anni. A ricordare Denis con noi c’erano solo i suoi tifosi e le società sportive in cui ha militato prima di approdare al Cosenza, l’U.S. Russi, l’A.C. Imolese e l’A.S.D. Argentana, che hanno organizzato Memorial a lui intitolati e portato fiori sulla sua tomba. Per il resto, dal giorno della sua morte fino al 2010, quando ci siamo rivolti all’avvocato Gallerani, ci sentiamo di ringraziare soltanto due persone: il giornalista Oliviero Beha, che nei suoi programmi ha sempre parlato della vicenda, e Carlo Petrini, che nel 2001 scrisse su Denis il libro Il calciatore suicidato».
Petrini ha dato voce ai dubbi sulla tesi del suicidio che la tua stessa famiglia ha espresso fin dall’inizio. In tutti questi anni è stato più forte il dolore per la perdita di Denis o la rabbia per l’impossibilità di accertare le responsabilità dell’accaduto?
«Difficile dirlo. Oltre al dolore per la scomparsa di Denis, per la sua assenza, in noi famigliari esiste anche un altro dolore, quello che perennemente non ti lascia respirare, il dolore che lui stesso ha dovuto sopportare, il pensiero del dramma che ha vissuto e poi del fango in cui è stato gettato. La rabbia? Non si tratta di rabbia, ma di una sofferenza psicologica che ti distrugge giorno dopo giorno».
Che ricordi hai di tuo fratello Denis e dell’affetto che vi univa?
«Denis era un ragazzo umile e solare, con una grande voglia di vivere e un sogno nel cassetto che si stava realizzando: giocare a calcio ad alti livelli. Esprimere l’affetto che ci legava è molto difficile e doloroso, con lui se n’è andata anche una parte di me. Eravamo amici-fratelli e, forse perché ci dividevano solo quindici mesi di distanza dalla nascita o forse semplicemente per compatibilità di carattere, non ricordo di aver mai litigato con lui. Ci confrontavamo spesso e spesso le decisioni, sia per l’uno che per l’altra, venivano prese insieme, per qualsiasi problema. Credo che nessuno sarebbe riuscito a interrompere questo particolare rapporto… solo la morte».
Quand’è stata l’ultima volta che hai parlato con lui?
«Fu il lunedì dopo la trasferta del Cosenza a Monza, esattamente cinque giorni prima del suo omicidio. Per tutta la giornata mio fratello era allegro, spensierato, tant’è vero che andò pure ad acquistare il regalo di compleanno per mia figlia che allora aveva cinque anni e a cui era legatissimo: era stato lui a scegliere il suo nome. Quando penso a Denis, nella mente mi appare l’immagine di loro due che ridono e scherzano».
Denis era stato richiesto dal Parma e dalla Fiorentina del suo ex allenatore Bruno Giorgi. Perché decise di restare al Cosenza?
«Due furono le ragioni per le quali Denis rinunciò al salto di categoria. La prima riguarda la sua professionalità: a lui piaceva dare il massimo, ma l’infortunio alla gamba che aveva subìto l’anno prima ancora non gli dava la certezza di poter giocare titolare in serie A. La seconda riguarda il suo modo di essere: Denis era grato al Cosenza calcio per le cure ricevute. Inoltre, aveva creato un ottimo rapporto con lo spogliatoio, i tifosi e la comunità cosentina».
A Cosenza via degli Stadi potrebbe diventare via Donato “Denis” Bergamini.
«Per quello che Denis ha dato a Cosenza, e per una comunità che oggi sta lottando dignitosamente per la ricerca della giustizia e della verità, credo sia una giusta iniziativa. A noi famigliari alleggerirebbe probabilmente il ricordo di quel dolore, di una città che allora dormiva…».
Oggi invece Cosenza vi sostiene.
«Molte famiglie cosentine esprimono la loro solidarietà nei nostri confronti. Quando torniamo a Cosenza spesso siamo riconosciuti da persone mai viste che ci avvicinano – chi con un gesto affettuoso, chi con le lacrime agli occhi – e ci spronano ad andare avanti, perché nessuno ha mai creduto al suicidio e vogliono la verità, vogliono che chi ha sbagliato paghi. Questa solidarietà, oltre che nella città di Cosenza, è viva anche in altri comuni calabresi, dove le amministrazioni hanno patrocinato le iniziative della nostra associazione “Verità per Denis”: Rossano Calabro, Trenta, San Giovanni in Fiore e Aiello Calabro, dove è nato il “Giardino della Verità”. Quest’anno anche il comune di Mangone, grazie all’interessamento del Club “Francesco e Vincenzo Merenda”, ha ospitato la nostra associazione».
“Verità per Denis” è stata un’iniziativa della tua famiglia?
«No. L’associazione si è formata grazie ad alcune persone che conoscevano Denis, ma soprattutto grazie a coloro che non hanno mai accettato la superficialità con cui è stato chiuso il suo caso e l’impunità di chi ha commesso il suo omicidio. Il direttivo ha preferito che fossi io il Legale Rappresentante, in qualità di “ponte” fra i calabresi e gli emiliani. Fra di loro, infatti, inizialmente si conoscevano solo su facebook (nel 2009 era nato il gruppo “Verità per Donato Bergamini”, ndr), io ero l’unica assieme ai miei famigliari ad aver avuto modo di conoscere personalmente entrambe le comunità.
L’associazione è nata principalmente con due scopi: chiedere giustizia e verità per Denis, portando alla luce tutto il fango di questa storia con iniziative di informazione, e cercare di reperire fondi per far fronte alle spese per la riapertura del caso: le indagini si svolgono a mille chilometri di distanza dalla provincia di Ferrara, dove noi famigliari e l’avvocato risiediamo, quindi i costi per le trasferte sono altissimi. Il nostro intento, una volta chiusa la vicenda giudiziaria di Denis, è anche quello di porgere una mano a chi è vittima di malagiustizia collaborando e trasferendo la nostra esperienza».
Le attività dell’associazione hanno permesso di riportare in vita la memoria di tuo fratello anche tra chi non lo conosceva.
«La nostra rete di contatti continua ad ampliarsi. In Emilia abbiamo l’appoggio degli enti locali, dalla Regione alla Provincia di Ferrara, all’amministrazione comunale di Argenta (il comune in cui Denis è nato, ndr), ma oggi il ricordo di mio fratello è vivo anche in altre realtà territoriali: tra le prestigiose 150 maglie attualmente in mostra nella Football Space Gallery allestita a Bergamo, figura anche quella di Denis. Voglio però rivolgere un ringraziamento particolare alla comunità di Boccaleone di Argenta, il paesino in cui io e Denis siamo cresciuti, sempre partecipe alle nostre manifestazioni, e ai ragazzi di San Biagio, altra frazione di Argenta, che pur non avendo mai conosciuto mio fratello ogni volta che organizzano un evento dedicano uno spazio alla sua vicenda».
Grazie alle manifestazioni sportive in memoria di Denis, molti altri giovani si sono avvicinati alla sua storia.
«Denis era un calciatore, perciò è del tutto naturale che le nostre attività riguardino soprattutto l’organizzazione di tornei con le scuole-calcio di varie società. Inoltre, in Emilia in estate abbiamo due squadre di ragazzi che portano il nome “Verità per Denis”. Sentirmi dire da loro: “Donata, è un onore far parte di questa squadra” mi riempie il cuore di gioia. Dal canto mio, mi raccomando sempre con tutti coloro che partecipano ai nostri tornei che si giochi un calcio pulito, ribadendo che le squadre che aderiscono alle nostre manifestazioni sono già vincenti. I ragazzi conoscono la storia di Denis, sono loro stessi a farmi domande su di lui e quando il torneo finisce mi salutano dandomi appuntamento all’anno dopo con l’augurio che nel frattempo sia stata fatta giustizia».
E tu hai ancora fiducia nella possibilità che si possa fare definitivamente luce sulla morte di tuo fratello?
«Ripeto sempre che una vita senza verità e giustizia è una vita senza libertà. Ho toccato con mano il peggio che possa accadere a un cittadino, ma forse all’epoca ho solo incontrato persone sbagliate al posto sbagliato. La fiducia nella magistratura la si acquisisce soltanto se gli organi competenti lavorano con onestà e operano per il rispetto dei diritti umani, in caso di omicidio per i diritti delle vittime. È un diritto sapere come, perché e da chi è stato ucciso un tuo caro, è un diritto conoscere chi e perché ha taciuto o nascosto. Devo aver fiducia nella giustizia perché voglio arrivare alla verità, alla totale verità».
Graziana Urso
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(intervista raccolta nel mese di agosto 2013)
Splendido pezzo, interessante e d’attualità. La tragica vicenda di Bergamini è nel cuore di tanta gente. La sua ingiusta fine merita verità e giustizia. Un plauso a Graziana Urso e a Storie di Sport per aver ricordato a tutti noi questa storia su cui non deve calare il sipario.
Stefy72
Grazie, Stefy! Condividiamo le tue parole: la storia di Denis e della sua famiglia ha commosso profondamente anche noi. Una tragedia su cui speriamo si possa far luce il prima possibile perché tra tanto dolore si faccia almeno giustizia. (La Redazione)