“Magic” Johnson e Larry Bird
Se scontro vuol dire vittoria
Venticinque marzo 1979. Salt Lake City, Utah. Nella palestra cittadina, una squadra di college basket si sta preparando per la sfida dell’anno, la finale del torneo universitario NCAA. Il più importante del settore.
Spartans, così sono chiamati i dodici atleti che rappresentano Michigan State nel mondo della pallacanestro. Jud Heathcote, il coach, sta per concludere la sessione di allenamento, quando viene interrotto dalle risate di alcuni ragazzi. Non sono i suoi e lo sa. Loro non lo farebbero mai.
Sono i Sycamores, di Indiana University, i temibili avversari con i quali avrebbero dovuto contendersi il titolo. Mentre i nuovi arrivati si sistemano in tribuna, prima di essere cacciati poco dopo, un giocatore in campo si volta a guardarli. Si chiama Earvin Johnson, è la stella indiscussa degli Spartans. Ed è intento a cercare una sola persona: Larry Joe Bird.
I due sono gli emblemi delle contendenti, così paradossalmente diversi nell’aspetto e nel carattere, ma così dannatamente uguali nel talento.
Earvin, da qualche anno detto Magic, è afroamericano, istrione e dal sorriso facile con tutti. Larry invece è bianco, bianchissimo, introverso e all’apparenza impenetrabile. Tra i due c’è un legame occulto, quasi mistico, che dura da tutta la stagione. Sono i migliori. Loro lo sanno, e sono legati indissolubilmente già da quel titolo per il quale combattono. Giocano come veterani, ma hanno appena vent’anni (Johnson) e ventitré (Bird).
Magic guarda Larry. Bird fa finta di niente, poi si volta veloce. Gli sguardi si incrociano per un secondo. Un secondo che concentra una forza ed una competitività che nessuno prima è mai riuscito ad esprimere.
Il giorno dopo, il 26 marzo, è diventato storia. Magic vince quella gara 75-64 ed alza il trofeo, mentre a Larry non restano che le lacrime.
«Avevo passato tutta la settimana a sognare di battere Bird», racconta Johnson.
«Quello che faceva più male era il fatto che fosse tutto finito», è invece la reazione di Bird, che salta persino la conferenza stampa, quella sera.
Avere il 24.1% dei telespettatori americani intenti ad ammirare le tue gesta, sentire il peso della sfida, l’agonismo che ti dà linfa vitale, giocare per un titolo. Larry ha paura che tutto questo non si possa ripetere. Si sbaglia.
12 giugno 1984. Boston, Massachusetts
Un’onda di persone festanti e vestite di verde sta travolgendo le strade della metropoli. Magic Johnson è alla finestra del suo hotel e guarda lo spettacolo dall’alto. Con uno sforzo sovrumano, perché potrebbe tirare le tende e dormire, ma il suo orgoglio glielo impedisce. La sua squadra, i Los Angeles Lakers, ha appena perso l’ultima, memorabile sfida delle finali del campionato NBA.
E l’ha persa contro i peggiori rivali. Gli storici rivali. I Boston Celtics.
L’astio tra le due franchigie (così sono strutturate le squadre oltreoceano) risale a parecchi anni prima, quando i Celtics avevano dominato il basket americano dalla fine dei Cinquanta a quella dei Sessanta, a discapito proprio dei Lakers. Gli undici titoli vinti da Bill Russell, emblema di quell’epopea, dopo un quindicennio fanno ancora male nei ricordi di Jerry West e di Wilt Chamberlain, le stelle di una Los Angeles mai all’altezza dei diretti avversari.
La sconfitta di oggi a Magic brucia però ben di più che per semplici ragioni storiche. In quella stanza d’albergo, in compagnia di due grandi amici, nonché stelle NBA, Mark Aguirre e Isiah Thomas, lo sconsolato Earvin sa che nelle strade ricolme di tifosi, pronto a ricevere gli onori della vittoria, c’è Larry Bird.
Era il 1980 quando entrambi erano arrivati al massimo campionato americano di pallacanestro.
Johnson ai Lakers di Los Angeles. La città delle stelle, a due passi da Hollywood. L’ambiente giusto ed ideale per mettere in mostra uno sgargiante sorriso a trentasei denti. Bird ai Celtics, nell’Est rigido e conservatore, dai sapori europei.
Insomma, il posto migliore dove crescere e maturare senza perdere la propria natura. Con lo stimolo in più di una rivalità storica, ma soprattutto personale.
Il primo anno a trionfare era stato Johnson. A Bird era toccato l’anno successivo. Poi di nuovo Magic. Il campionato del 1984 era quindi iniziato con un anello (premio vittoria per i vincitori NBA) in più per Magic. Vittorie fantastiche per entrambi, nei quattro anni da professionisti. Ma mai in una finale contro il nemico dichiarato. L’epilogo del NCAA, che ancora bruciava a Larry, non aveva mai avuto una rivincita.
Sino al 12 giugno 1984, appunto.
Assomiglia molto ad un avvincente romanzo, la storia che lega Larry Bird e Magic Johnson. Dietro alla trama ed in mezzo agli intrecci però, c’è una solida realtà. Magic e Larry possedevano un talento che nessun altro giocatore fino a quel momento aveva posseduto, e non avrebbe posseduto nemmeno in futuro, se non fosse arrivato un certo Michael Jordan.
Un talento che per entrambi deve essere equamente diviso in due parti: qualità di gioco superiore e impatto mediatico travolgente.
Earvin era un playmaker, un regista del gioco, posizione che, nella pallacanestro, non richiede tanto grandi doti fisiche, quanto atletiche, tecniche e tattiche. Magic, con i suoi 2,06 metri, sommava tutte queste caratteristiche a dieci centimetri in più rispetto ai colleghi. Certo, avrebbe avuto la stessa intelligenza e gli stessi fondamentali, se fosse stato più basso. Non la stessa incisività però.
Era in grado di lanciare un contropiede ad una velocità incredibile per uno della sua stazza, ed al contempo poteva giocare a ridosso del canestro, sfruttando la disparità di altezza con il diretto marcatore. Sapeva prevedere ogni mossa dei suoi compagni e dei suoi avversari, al fine di colpire con la massima efficacia, ma soprattutto con una spettacolarità mai vista su di un parquet NBA fino ad allora. Showtime, così erano chiamate a Los Angeles le partite dei Lakers, uno spettacolo pari ai grandi colossal di Hollywood.
Larry Bird, malgrado i suoi 2,08 metri, non aveva la stessa superiorità fisica di Magic. Giocava in un altro ruolo (ala piccola) e spesso doveva confrontarsi con giocatori non troppo diversi da lui. Non era un grande velocista e, all’apparenza, non sembrava neppure un grande atleta. Eppure aveva perfezionato fino alla morte i suoi movimenti, al punto tale che la coordinazione e la precisione riuscivano a sopperire a fisico ed atletismo.
Come Magic, possedeva una conoscenza di gioco superiore a tutti ed una tecnica, specialmente al tiro, che lo rendeva pressoché immarcabile. Poteva tirare con due uomini in marcatura, fuori equilibrio e lontano da canestro senza che ciò gli impedisse di mettere due o tre punti a referto, dando l’impressione che fosse tutto normale. E se non fossero bastati i meriti tecnici, in Larry convivevano un agonismo ed una competitività fuori da ogni convenzione.
La NBA, negli anni Settanta, non stava vivendo un grande momento di popolarità. Da sempre surclassata da baseball e football, era stata persino superata dall’hockey nelle preferenze dell’americano medio. Gli scandali di droga e criminalità attorno ai cestisti professionisti avevano provocato un certo distacco del pubblico, che preferiva le partite di college a quelle NBA.
Ci voleva una svolta e poteva avere due soli nomi: Earvin Magic Johnson e Larry Joe Bird. La loro storia divise l’America, ma allo stesso tempo la fece riappassionare ad uno sport che si stava smarrendo. Le loro gesta, riprese e trasferite su VHS, furono le prime a compiere il volo sull’Atlantico e a sdoganare il nome del basket NBA anche in Europa. Jordan non sarebbe mai stato Jordan, l’uomo emblema della pallacanestro, se non addirittura di tutto lo sport americano, se Magic e Larry non gli avessero spianato la strada. Con loro e con il nuovo Commissioner (il capo della Lega) David Stern, basket e pubblicità cominciarono a farsi l’occhiolino, gettando le basi per quello che oggi è il più grande impero di marketing del mondo dello sport.
Eroi in campo e fondamentali fuori.
7 Novembre 1991
«Devi chiamare Larry, devi trovarlo prima dell’annuncio ufficiale»
L’imperativo categorico della stella dei Lakers è rivolto a Lon Rosen, il suo agente. E Rosen trova Larry, immediatamente.
«Magic, mi dispiace tanto»
«Tranquillo, andrà tutto bene»
Larry Bird ha appena ricevuto la notizia di un evento sconvolgente. Magic Johnson, in seguito a visite di routine, ha scoperto di aver contratto il virus HIV. Da una settimana custodisce questo segreto ed è imminente la conferenza stampa convocata per comunicarlo al mondo.
«Devo solo prendere delle medicine, ma batterò questa malattia», continua come se nulla fosse Earvin. Poi un interminabile silenzio.
«Allora, come ti sembrano i Celtics quest’anno?», riprende finalmente Larry.
«Diavolo, probabilmente vi romperemo il culo», ride Magic.
Bird riappende la cornetta e guarda stupefatto la moglie Dinah.
«Era lui che cercava di tirare su il morale a me, non viceversa…»
Nel ’91 parlare di HIV o AIDS è la medesima cosa. Non esiste distinzione tra virus e malattia. Non esistono altro che pregiudizi legati ad essa, omosessualità e droga in cima alla lista. Ancor peggio, pende una sentenza inequivocabile per chiunque sia sieropositivo. La morte.
Non sarà affatto facile per Magic Johnson, ma sapere di avere Bird al suo fianco è uno stimolo in più per lottare. Perché in un rapporto proceduto sin dagli inizi per tesi e antitesi, arriva fatalmente anche il momento della sintesi. I due guerrieri si sono spartiti otto titoli NBA in dieci anni (5 a 3 per Magic). Si sono scontrati in tre finali tra i professionisti (2 a 1 per Bird). Hanno fomentato una rivalità che ha giovato tanto ai tifosi quanto alla Lega. Ma in realtà non si sono mai veramente detestati, hanno anzi saputo coesistere e sostenersi l’un l’altro anche in schieramenti opposti.
Magic nel ’91 annuncia il suo ritiro, ma è fortemente voluto dal pubblico all’All Star Game dello stesso anno. Bird nel frattempo combatte con una schiena a pezzi da anni e con un team che non è più in grado di dargli il supporto sperato. Proprio quando, nel giugno del 1992, Michael Jordan solleva al cielo il suo primo titolo NBA, quasi a voler dimostrare che l’incantesimo di Larry e Magic è giunto alla fine. Non è così.
Nell’agosto del 1992, in occasione dell’Olimpiade di Barcellona, la USA Basketball decide di mandare i dodici migliori atleti della NBA a giocarsi la medaglia d’oro. E tra questi dodici monumenti, due sono quelli che più di tutti si sono elevati verso l’immortalità: Earvin Johnson e Larry Bird.
«Sono legato a Larry, lo sarò sempre. È così e basta. Scrivere la nostra storia è un’occasione per far conoscere alla gente come la nostra amicizia è nata e si è evoluta»
Proprio come in un romanzo.
Mattia Pintus
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