Wimbledon 1975
Il capolavoro di Arthur Ashe
Il 5 luglio 1975 non può che essere un sabato. Del resto da che mondo è mondo, nel Regno Unito si fa poco o nulla di domenica. Non si pratica lo sport, per esempio. Di nessun tipo. Niente football, né rugby o corse di cavalli. Nemmeno il Torneo di Wimbledon, un’istituzione sacra quasi quanto la Regina o il tè delle cinque, sfugge a una tradizione che sarà violata solo con l’avvento dei grandi network televisivi, capaci di modificare, a suon di denaro, orari, feste e tradizioni che parevano immutabili.
Il 5 luglio 1975 – dicevamo – è un sabato. Sull’erba del Centre Court, il campo principale del sobborgo a sud-ovest di Londra dove si svolge il più antico e prestigioso evento del tennis mondiale, va in scena la finale tra due autentici mostri sacri. Da una parte il ventitreenne mancino Jimmy Connors, detto Jimbo, numero uno nella classifica dei tennisti del momento e campione uscente. Dall’altra l’afro-americano Arthur Ashe, di nove anni più anziano, reduce da alcune stagioni non proprio esaltanti, ma ancora in grado di giocare ad alti livelli, come dimostra il suo sesto posto nel ranking internazionale.
Contro il pronostico
Per gli addetti ai lavori e i bookmaker, tuttavia, l’incontro non ha storia. L’atleta di colore viene infatti dato 7-1, nonostante nei quarti di finale si sia sbarazzato nientemeno che di Björn Borg. Troppo ampio, in effetti, è il divario di età tra i due. Troppo diverso il loro rendimento sull’erba, su cui Ashe è inferiore all’avversario. La statistica, poi, parla chiaro: le tre volte precedenti che Jimmy e Arthur hanno incrociato le racchette, una volta a Boston e due a Johannesburg (tutte finali disputate peraltro sul cemento), si sono sempre risolte con la vittoria di Jimbo.
Insomma, ci sono tutti gli ingredienti perché la bilancia dei pronostici penda a favore del giovane tennista bianco. Se a ciò si aggiunge il fatto che l’anno prima quest’ultimo ha trascinato in tribunale il collega in qualità di presidente dell’associazione dei tennisti professionisti (ATP) per la sua esclusione dagli Internazionali di Francia, si capisce anche come Connors abbia il dente avvelenato contro un avversario verso il quale non ha feeling.
Nessuno però ha fatto i conti con il sogno che Ashe coltiva da una vita: quello di aggiudicarsi quel torneo. «Darei una mano pur di farcela», confessa alla vigilia. Per lui, nero e impegnato nella difesa dei diritti civili, certo, ma anche ricco, snob e orgogliosamente capitalista, vincere a Wimbledon, dove ogni cosa è pulita, dove tutti sono eleganti, dove ogni filo d’erba trasuda di colonialismo britannico, è come dimostrare a sé stesso di avercela fatta una volta per tutte. Wimbledon, del resto, è la capitale mondiale del pianeta tennis.
Così, quando il match inizia, il pubblico – prima ancora degli addetti ai lavori e dei bookmaker – intuisce al volo la voglia di vittoria di quel tennista nero che molti danno troppo frettolosamente sul viale del tramonto. La gente comincia così a tifare per lui, prima sommessamente, poi in maniera sempre più aperta. L’afro-americano, d’altra parte, sta giocando come mai gli è capitato negli ultimi anni. Al tennis aggressivo del suo avversario, Ashe per la prima volta decide di non contrattaccare, come invece ha sempre fatto nei tre precedenti e sfortunati match contro il suo avversario.
L’inedita strategia di Arthur si rivela azzeccata. I primi due set, infatti, non hanno storia: un doppio 6-1 che atterrisce Jimmy, partito con la certezza di avere già la vittoria in tasca. Ma anche Ashe è sceso in campo convinto di vincere. La sera della vigilia, infatti, aiutato da alcuni suoi colleghi, ha studiato attentamente l’incontro, elaborando una strategia che – ne è assolutamente certo – non può fallire. Cinque o sei punti chiave scritti su un foglio che, durante la finale, Arthur ripassa attentamente a ogni cambio di campo.
Quel giorno, dunque, a Jimbo basta poco per capire che non sarà una passeggiata. Al suo rovescio a due mani, alle sue potenti battute sotto rete e alle sue violente risposte da fondo campo, Ashe replica infatti con colpi taglienti e liftati che imprimono alla pallina rotazioni e traiettorie imprevedibili. Il ritmo rallentato che Ashe riesce a imporre all’incontro ottiene fin da subito il risultato sperato: quello di costringere Connors a commettere molti errori.
Sul 2-0, però, Jimmy ha un sussulto di orgoglio e, seppure a fatica, riesce a riaprire la partita, aggiudicandosi il terzo set per 7-5. Dopo i primi tre giochi del quarto set, poi, il corso dell’incontro sembra essersi definitivamente ribaltato: Connors, che pare uscito dallo stato di torpore agonistico in cui era precipitato fino a poco prima, conduce infatti per 3-0. Durante il cambio di campo Ashe, preoccupato da quella inattesa débâcle, pensa – confesserà poi – che sia forse giunto il momento di abbandonare la sua tattica e cominciare a contrattaccare. L’indecisione dura però solo un attimo, perché quando il gioco riprende sceglie di andare orgogliosamente avanti con la sua strategia iniziale. La scelta si rivela saggia: il tennista afro-americano ribalta la situazione, vincendo sei dei successivi sette game e fissando il risultato sul 6-4, il che gli consente di aggiudicarsi l’incontro per 3-1. Una vittoria inattesa ottenuta, come scriverà lo scrittore John Mc Phee, “per manifesta superiorità culturale”. L’intelligenza contro la forza.
È fatta. Arthur Ashe da Richmond, in Virginia, è il primo giocatore nero a vincere a Wimbledon. Del resto, ad abbattere muri lui ci è abituato: è infatti il primo afro-americano a essere selezionato, nel 1963, per la squadra USA di Coppa Davis, il primo tennista di colore a conquistare, nel 1968, gli U.S. Open e, nel 1970, gli Australian Open. È, in sintesi, il primo giocatore nero della storia ad arrivare ai vertici in uno sport da sempre riservato ai bianchi.
La lotta per i diritti umani
Ma le vittorie di Arthur non si limitano al tennis. Sfrutta infatti la sua popolarità per portare ripetutamente all’attenzione dell’opinione pubblica temi come l’apartheid, i diritti umani, le discriminazioni. Si espone in prima persona – finendo anche in carcere – contro il regime razzista sudafricano, a favore della democrazia in Medio Oriente, per i diritti degli immigrati che scappano dalla vicina Haiti, per i sieropositivi. Lui stesso, peraltro, ha contratto l’HIV in seguito a una trasfusione di sangue, resasi necessaria dopo due infarti che lo hanno colpito nel 1979 e nel 1983.
È sempre in prima fila per aiutare chi ha bisogno: poco prima di morire di AIDS, nel 1993, fonda l’Arthur Ashe Institute for Urban Health per curare le persone senza assicurazione sanitaria. Una vita sempre sulle barricate, la sua. Di sicuro non moderata.
D’altra parte era ricco, snob e orgogliosamente capitalista, ma anche inesorabilmente nero. E Arthur Ashe aveva sempre vissuto con la granitica convinzione che essere neri e moderati sarebbe stato un controsenso.
Marco Della Croce
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