Niki Lauda e James Hunt
I cavalieri del rischio
C’è stato un tempo in cui gareggiare in Formula 1 significava correre in bilico lungo il filo del rischio. Allora una sfida si traduceva in un lancio di dadi contro la sorte, un guanto gettato a terra a dimostrare temerarietà. Compiuto quel gesto, non restava che gettarsi a capofitto nel turbine degli eventi successivi: partire, affrontare il percorso con il pensiero fisso al traguardo senza riflettere su quanto si trovasse nel mezzo. La distanza che separava il via dalla fine della corsa prevedeva agguati di ogni genere, inclusa la morte.
Negli anni precedenti al 1976 durante i mondiali di Formula 1 morirono dodici piloti. Questo dato si era conficcato come un chiodo nella mente di chi quel circuito lo attraversava alla massima potenza, guidato da un’irrefrenabile sete di vittoria. I piloti convivevano giorno per giorno con l’eventualità della morte. Non la consideravano un imprevisto, come accade oggi, tenendo conto che i progressi fatti dalle norme di sicurezza riducono la fatalità a margini ristretti. Ogni volta, usciti indenni da una gara, si presentava l’occasione per celebrare la semplice realtà di essere vivi. La vertigine del vuoto non appariva follia, ma bisogno: un modo per scoprire a fondo la vita nel timore stesso di esaurirla. I motori rombanti si accendevano nello scontro dell’uomo con il suo nemico di sempre, il destino. Le monoposto erano schierate sulla linea di partenza, non costituivano altro che un moderno esercito automobilistico composto dai cavalieri del rischio.
L’ambizione alla vittoria è da sempre una prerogativa essenziale per affrontare una sfida, ma il vero campione sembra dotato di una speciale tendenza al trionfo, che lo differenzia dagli altri. Come se un’entità superiore gli avesse consegnato le carte vincenti. Gli anni Settanta erano l’epoca di una Formula 1 ancora pionieristica.
Per praticarla di certo ci voleva fegato o, forse, un certo spirito di ribellione. Fu questa caratteristica ad accomunare da subito i protagonisti del duello più acceso sulle piste di quel periodo.
Due campioni complementari
L’austriaco Andreas Nikolaus Lauda e l’inglese James Simon Wallis Hunt discendevano da famiglie facoltose, potevano vantare strade spianate nella carriera lavorativa, uno stile di vita agiato, poche preoccupazioni. Il padre di Lauda, Hans, era un ricco banchiere che prevedeva per il figlio un futuro nella gestione dei titoli in Borsa. Allo stesso modo, il padre di Hunt sognava una laurea in medicina a completare la disposizione di cornici sopra il camino. Entrambi restarono delusi.
In cuor loro Niki e James sentivano che, se avessero seguito quelle direttive, sarebbero diventati rispettivamente un pessimo banchiere e un pessimo medico. Non fu certo la disperazione o la ricerca di denaro a condurli su quei circuiti infiammati dalla fatalità, ma qualcos’altro; un battito pulsante che solo loro conoscevano e seguiva il suono delle ruote contro l’asfalto.
Hunt aveva imparato a guidare da bambino, a bordo di un trattore: il suo sembrava un innocuo passatempo durante le vacanze estive, ma non era così. A diciassette anni assistette con alcuni amici ad una corsa di Mini, disputata a Silverstone, e capì che quello sarebbe stato il suo mondo. L’inizio si rivelò difficile: per procurarsi i soldi necessari a disputare le gare lavorò in una compagnia telefonica. Aveva abbandonato il suo status di rampollo di buona famiglia pur di conquistare da sé il proprio prestigio.
Non andò diversamente per Lauda, le cui aspirazioni furono altamente osteggiate dai genitori che, da parte loro, temevano di essere screditati agli occhi dell’alta società. Compì il suo primo atto di ribellione ritirandosi dall’università e proseguì chiedendo un prestito ad alcune banche del Paese per l’acquisto della sua prima vettura. Costretto a partire dal fondo, iniziò a gareggiare in Formula Cinque continuando fino all’esordio in Formula Tre con la McNamara, un auto dalle basse prestazioni. Dovette attendere il 1970 per giungere alla Formula Due al volante di una March, la scalata però richiese un nuovo prestito bancario di circa trentacinquemila sterline.
Nonostante ogni sforzo, non era considerato nessuno, era oberato dai debiti e disapprovato dalla famiglia, oltretutto la gente fissandolo sosteneva che non avesse affatto l’aspetto di un pilota. Una capacità, però, Niki l’aveva: sapeva ascoltare la vettura, riusciva ad individuarne ogni minimo difetto. Il direttore del team March, Robin Herd, comprese che quel giovane aveva qualcosa di speciale e non tardarono le conferme con il debutto in Formula 1 nel Gran Premio d’Austria del 1971. La scalata non cessò neppure con il passaggio alla scuderia BRM dove Niki conobbe il pilota svizzero Clay Regazzoni. La complicità con quest’ultimo, che riconobbe le sue ottime doti di collaudatore, gli valse l’ingresso nel prestigioso team di Enzo Ferrari.
In parallelo proseguiva l’ascesa di Hunt che, per le sue frequenti vittorie in Formula Tre, era già stato premiato come uno dei piloti inglesi più promettenti per il futuro. Venne assunto da Lord Alexander Hesketh per gareggiare in Formula Due e successivamente, con un ardito salto di classe, in Formula 1 nella quale debuttò al Gran Premio di Monaco del 1973. Il salto fu, appunto, ardito perché ben presto Lord Hesketh cadde nella rovina economica e, in mancanza di sponsor, non ebbe alternative al ritiro. Improvvisamente Hunt si ritrovò sprovvisto di scuderia, un colpo duro per il pilota inglese.
Trascorsero mesi difficili, poi ben ricompensati dall’approdo in McLaren in seguito al ritiro del pilota Emerson Fittipaldi. Venne ingaggiato con un contratto di appena 200mila dollari, il più basso mai stipulato, che non teneva conto del suo potenziale. Quello stesso anno sarebbe diventato campione del mondo.
Inseguivano i loro sogni Niki e James, ciascuno secondo la propria inclinazione, ma spinti dal medesimo desiderio di sfrecciare sulla pista. Meticoloso, Lauda si preoccupava di migliorare le prestazioni meccaniche della propria vettura, mentre l’obbiettivo di Hunt era spingersi oltre i propri limiti, premendo l’acceleratore con forza. Intendevano arrivare al vertice, sapevano di averne le qualità, per farlo impiegarono ogni lato della propria personalità. James Hunt venne soprannominato The Shunt, lo Schianto, non solo per le sue caratteristiche fisiche, ma anche per la tendenza all’alta velocità che lo portava a sfasciare le macchine.
Niki Lauda si aggiudicò l’appellativo di Computer per la sua capacità di mettere a punto un mezzo meccanico. Sembravano diversi, eppure erano così simili: accomunati dalle stesse origini, dal talento naturale mischiato alla fatica del principiante, con l’aggiunta della stessa attesa speranzosa e caparbia del successo. Erano intrecciati fra loro come lo Yin e lo Yang, amici fuori dalla pista, tanto da condividere all’inizio della carriera uno stesso appartamento a Londra, eppure rivali all’interno del circuito di gara. E, che lo riconoscessero o no, avevano bisogno l’uno dell’altro per mostrare al mondo il meglio di quanto potevano dare. Pensando ad Hunt, Lauda disse: «Le nostre vite si sono sempre incrociate. Per tanti aspetti eravamo uguali. Quando lo guardavo negli occhi, capivo esattamente quello che provava. Ho sempre nutrito un grande rispetto per lui in gara. Era un grande pilota».
Ferrari vs. McLaren
Lauda si espresse senza mezzi termini di fronte ad Enzo Ferrari quando gli disse: «Questa macchina è una merda. Non curva bene, niente equilibrio». A Ferrari dei piloti importava ben poco, ma per le sue auto aveva la massima considerazione e il suo principale interesse era vincere. Così accolse l’esortazione dell’austriaco a migliorare la vettura, apportando dei cambiamenti che avrebbero aumentato la velocità di mezzo secondo.
Quel ragazzo gli era simpatico perché diceva la verità, non lo prendeva in giro, forse capì che la schiettezza di Niki non era volta ad offendere ma a provocare un mutamento. Il suo arrivo, in effetti, non modificò solamente la prestazione delle auto, fece ben altro: in quegli anni per la Ferrari piovvero i successi.
La Rossa ottenne la pole position per nove volte e nel 1975, l’anno successivo, Lauda vinse il suo primo titolo mondiale trionfando nei GP di Montecarlo, Belgio, Svezia, Francia e Usa. I debiti e i prestiti bancari a quel punto non erano che un lontano ricordo e chiunque vedesse Niki riconosceva in lui un pilota.
La fortuna girava anche per la McLaren di Hunt che, all’inizio del 1976, si guadagnò due vittorie ed un secondo posto nei primi nove Gran Premi. La competizione iniziava a fendere l’aria come un coltello: Niki e James avevano una schiera di tifosi alle spalle e altrettanta consapevolezza dei propri meriti. Finalmente l’immagine che il mondo rifletteva di loro era la stessa che avevano sempre avuto nel cuore. Consapevoli del rischio e, allo stesso modo, sprezzanti di correrlo, si impossessarono di quelle curve come dei sentieri delle loro vite, preparati ad affrontare le insidie con l’identico ardore. Come sempre, però, fra l’innocente svolgersi di quei circuiti era teso il pericolo pronto a giocare la sua parte.
Il dramma del Nürburgring
Agosto 1976, Gran Premio di Germania. La gara si disputò sul Circuito del Nürburgring sotto una pioggerellina fitta ed insidiosa. Si correva su una pista di 22,8 chilometri in cui erano morti 131 piloti in meno di cinquant’anni. Questa tragica premessa venne ricordata soltanto a posteriori, in seguito alla drammaticità degli eventi che seguirono. Le condizioni atmosferiche erano pessime: Lauda non voleva gareggiare. Hunt invece sì. Alla gara non si rinunciò, vennero montate le gomme da bagnato e ci si apprestò a partire. Terminato il primo giro il cielo si placò obbligando i piloti ad un’imprevista sosta ai box per cambiare le gomme.
Mancavano pochi minuti allo scatenarsi dell’inferno, Lauda era in ottava posizione impegnato in un avvincente testa a testa con Hunt. Alla Bergwerk, la curva più lontana dai box, a cui segue un tracciato misto a rettilineo di oltre 20 Km, perse completamente il controllo della vettura. La Rossa uscì dal rettilineo schiantandosi contro una roccia, l’urto la rigettò in pista avvolta in una pira di fiamme. Niki si ritrovò imprigionato nella macchina, inerme, la violenza dell’impatto l’aveva privato del casco di protezione. Nessuno scudo poté proteggerlo dall’innalzarsi del fuoco. I colleghi subirono le conseguenze del disastro: Guy Edwards riuscì ad evitare lo schianto, ma Harald Ertl e Brett Lunger lo tamponarono. Furono loro i primi a rendersi conto della gravità della situazione, vedendo il campione del Mondo ridotto ad una fiamma incandescente. Accorsero subito tentando l’impossibile per estrarlo dalla monoposto, aiutati da Arturo Merzari poco dopo. Niki venne estratto dalle lamiere contorte in uno stato irriconoscibile: il volto ricoperto di ustioni, nero di carbone e rosso di sangue. Si temeva per la sua vita, ma la corsa proseguiva.
Nell’ospedale di Mannheim Lauda lottava per sopravvivere, mentre nel maledetto Nürburgring James Hunt saliva sul gradino più alto del podio.
Non furono le ferite al volto le conseguenze più gravi dell’incidente, ma le condizioni dei polmoni. Niki aveva inalato tossine emesse dal carburante, dovettero trascorrere quattro giorni perché fosse dichiarato fuori pericolo. La sua speranza di vita sembrava minima, tanto da rendere ammissibile l’estrema unzione. La moglie Marlene lo assisteva con gli occhi pieni di lacrime, costringendosi ad essere forte dopo il trauma iniziale che le procurò uno svenimento per lo shock. Adesso era perfettamente consapevole di aver sposato un pilota e non un tennista, come aveva creduto al loro primo incontro.
Benché in ospedale il tempo apparisse sospeso, sui circuiti la vita non si arrestava: James Hunt guadagnò un quarto posto in Austria, un trionfo in Olanda e due vittorie consecutive in Canada e Usa. Sul podio si notava, però, l’assenza del suo avversario numero uno.
Trascorsi quarantadue giorni dall’incidente Lauda tornò alle corse, era già stato abbastanza a lungo lontano dalla normalità. Indossava un casco modificato per non urtare le ferite ancora sanguinanti, faticava ancora a vedere attraverso le palpebre ricostruite, ma non intendeva darsi per vinto. Gareggiò al Gran Premio d’Italia aggiudicandosi la quarta posizione, quindi i punti necessari alla lotta per il titolo finale.
La gente non riusciva a guardare Lauda con gli stessi occhi di prima, però lui sapeva di non essere cambiato e continuare a correre era il suo modo per dimostrarlo. Proseguì il suo leggendario duello con Hunt fino al Circuito del Fuji in Giappone. Ad accoglierli fu una pioggia torrenziale. Le vetture in corsa si schiantavano contro i muri d’acqua, le ruote correvano su un velo liquido, ed il sentore del pericolo era palpabile. Al secondo giro, Lauda dichiarò il ritiro sostenendo di essere pagato per guidare non per ammazzarsi.
Lo stesso non valeva per Hunt, che non desistette. Al 62° giro era in testa, ma fu costretto a rallentare per conservare gli pneumatici e, a cinque giri dal termine, si ritrovò quinto. Affrontò l’ultima parte della corsa al limite della follia, sfrecciando su fiumi d’acqua e sfidando la sorte a colpi di acceleratore. La sua imprudenza fu ricompensata: conquistò il terzo gradino del podio e il titolo mondiale divenne suo.
Fine di una corsa
A James Hunt quella vittoria fu sufficiente per porre il sigillo alla propria carriera. Si sentiva appagato e decise di andarsene, voleva essere ricordato come un vincente. Saltuariamente continuò a dedicarsi alla Formula 1, sostituendo per un breve periodo Prost alla McLaren, ma ormai la sua sete di vittorie era stata placata. Proseguì la propria vita sregolata sotto le luci dei riflettori, reinventandosi come presentatore per la Tv britannica. E la morte lo sorprese all’improvviso, fulminante quanto la velocità delle sue sfide, stroncandolo con la violenza di un infarto a quarantacinque anni.
Niki Lauda, invece, le corse non le avrebbe lasciate, dopotutto aveva i segni di quella passione impressi come stigmate sul volto. Si consacrò ancora due volte campione mondiale, prima di dedicarsi alla gestione delle sue compagnie aeree la Lauda Air e la Niki. Ancora oggi il suo volto muto racconta che cos’era la Formula 1 quando i piloti vivevano la competizione come cavalieri del rischio.
Alice Figini
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