Samia Yusuf Omar

Samia a Pechino nel 2008 (© Gallo/Getty)

Samia a Pechino nel 2008 (© Gallo/Getty)

 

Una tragica corsa per la libertà

Pechino, Giochi Olimpici  2008, primo turno delle eliminatorie, quinta batteria. Si corrono i 200 metri femminili. Quando già la giamaicana Veronica Campbell-Brown ha ripreso respiro e sorride a tutte le telecamere, arriva Saamia. È l’ultimissima. L’unica ancora in pista. Il pubblico un po’ ride, i commentatori di tutte le lingue non trattengono il sorriso, forse è un sogghigno. Le altre atlete, inclusa l’italiana Vincenza Calì, sono arrivate tutte assieme, con qualche centesimo di secondo di scarto. Samia taglia il traguardo dieci secondi dopo la giamaicana. Dieci secondi di corsa solitaria sulla pista. Dieci secondi di sorrisi, forse sogghigni, ma soprattutto applausi. Lo stadio intero mette da parte i risolini ed esplode in un’ovazione collettiva, accompagnando le falcate magre dell’atleta somala, la rappresentante femminile della Somalia ai Giochi della XXIX Olimpiade, con applausi, incitamenti, tenerezza.

Fermo immagine dell'eliminatoria

Fermo immagine dell’eliminatoria

 

È inequivocabilmente una vittoria. Perché per la diciassettenne Samia Yusuf Omar l’oro non era all’arrivo, ma alla partenza. Ed essere lì, sul tracciato, davanti a centinaia di milioni di persone tra pubblico e telespettatori, correndo con i colori della propria nazione, era una vittoria. La dimostrazione al mondo intero che è possibile arrivare alla meta. Da qualsiasi condizione si parta, la vittoria è possibile. Anche se il contesto è Mogadiscio, dove sopravvivere è una sfida quotidiana; anche se la famiglia fa parte di una minoranza etnica; anche se la propria casa ha due stanze dove convivere tutti, una madre e sei figlie, il padre no perché è stato ucciso da una pallottola; anche se il tuo Paese è in uno stato di anarchia; anche se l’ombra di Al-Quaeda ne permea le azioni, le decisioni, gli allenamenti.

La vita

Samia nasce nel 1991, l’anno della caduta del presidente Siad Barre, all’inizio del tracollo della Somalia. Nasce con un sogno di corsa e libertà. È stata per prima la madre, ex atleta nazionale, a insegnarle a correre. Ma gli allenamenti sono difficili: Samia si allena al Mogadiscio Stadium tra i crateri di mortaio che lo hanno reso quasi inagibile, ma più spesso è bloccata per strada dai militari che le intimano di tornare a casa: non è conveniente, per una ragazza somala, dedicarsi allo sport o alla musica. Inoltre, spesso durante l’allenamento veste leggero o scoperto: né le truppe del governo somalo né le milizie etiopi tollerano questo tipo di abbigliamento.

Abdinasir e Samia

Abdinasir e Samia

 

Quando è convocata nella squadra olimpica è un sogno che diventa mezza realtà: sa già che non concorre per una medaglia, ma lo fa per se stessa, e per il suo Paese. Si allena assieme a Abdinasir Said Ibrahim, l’atleta somalo che rappresenta gli uomini alle Olimpiadi. Corre per i 5000 metri e finirà al 37esimo posto con un tempo di 14’21’’58’’’ che è segnato come suo personal best.
Eccola Samia alla cerimonia inaugurale, nei suoi vestiti tradizionali, intimidita, sventolare piano la bandierina somala subito dietro al portabandiera Duran Farah, il segretario del Comitato Olimpico somalo, che radioso fa oscillare il drappo con ampi movimenti, mentre lei si rigira la bandierina tra le mani, la bocca aperta di stupore, gli occhi sgranati al pubblico come a cercare di capire se quel che accade è proprio vero.
I Giochi Olimpici celebrano non solo i trionfi del podio, ma anche quelli della fatica della lotta. E questo sarà il testamento più bello che lascerà Samia.

Team Somalia

Il team somalo alla sfilata di Pechino (© Reuters/Adrees Latif)

 

Al ritorno dalla Cina la somala deve nascondere il fatto di essere un’atleta. Un incontro a tu per tu con il capo delle milizie al-Shabaab accresce la sua paura, e comincia a negare di essere una sportiva: molti dei suoi vicini del quartiere, un campo monitorato dal gruppo insorto degli Hizbul Islam, sono del tutto ignari di vivere a fianco di un’atleta olimpica. Allenarsi diventa sempre più pericoloso: nel dicembre 2009 il ministro dello Sport Suleiman Olad Roble è ferito a morte nel corso di un attacco bomba suicida a una cerimonia di laurea di studenti di Medicina. In un tentativo disperato – e determinato – di vivere, Samia abbandona la famiglia e si dirige in Etiopia, che non è solo uno stato confinante con la Somalia, ma è anche una fucina di corridori di grande calibro. Nell’aprile 2011, Samia incontra ad Addis Abeba Eshetu Tura, campione olimpico etiope di lunga distanza. Conosce anche Yilma Berta, il coach della Federazione Etiope. È alla continua ricerca di un allenatore. Il suo obiettivo si chiama Londra 2012 ed è disposta a tutto pur di arrivarvi. Ma alle Olimpiadi londinesi non c’è.

L’epilogo

«Sapete che fine ha fatto Samia Yusuf Omar?». Dopo il trionfo di Mo Farah, atleta inglese di origine somale che a Londra si aggiudica l’oro sia nei 5 che nei 10 mila metri piani, i membri del Comitato Olimpico Nazionale sono riuniti a Mogadiscio. È Abdi Bile che parla, un’altra icona dello sport somalo, campione mondiale sui 1.500 metri a Roma nel 1987 nonché primo somalo ad imporsi nella storia dell’atletica. C’è silenzio in platea. Brutti presentimenti che acquistano peso, troppo peso, nell’aria.
«La ragazza è morta…» – prosegue Abdi – «Morta per raggiungere l’Occidente». Non c’è alcuna conferma, la sorella di Samia che vive in Finlandia, Hodan, rilascia la sua testimonianza alla BBC: Samia aveva lasciato Addis Abeba, aveva viaggiato fino al Sudan e da lì alla Libia. Per alcuni mesi dopo il settembre 2011 era persa in qualche luogo nel deserto libico e poi aveva deciso di andare in Italia con la barca, vendendo il poco che aveva per pagarsi il passaggio. «Le abbiamo tutti detto di non farlo e mia madre glielo ha ripetuto più volte ma Samia era molto determinata, ha chiesto perdono a mia madre, l’ha ottenuto e si è imbarcata. Ed è morta». Hodan dice di aver appreso del naufragio della sorella da alcune persone che viaggiavano sulla stessa barca: «È morta in un incidente. Avevano finito la benzina e hanno chiesto aiuto a una nave della marina italiana. Gli italiani hanno lanciato delle corde per aiutare il trasbordo delle persone ma sfortunatamente lei è una delle sei – sei donne e un uomo – a morire nel tentativo di salire con le corde sulla nave».

Il Corriere della Sera riporta che è morta al largo di Lampedusa, che quella carretta era la speranza di trovare un allenatore in Italia, per puntare, questa volta, non alla partecipazione ma a una medaglia alle Olimpiadi di Londra. Ma ahimè, per la donna più veloce della Somalia il mare non ha riservato nemmeno una medaglia clandestina.

Melania Sebastiani
© Riproduzione Riservata

 

, , , , , , , , , , , , , , , 4 Comment
Comments To This Entry
  1. Tragica, questa storia.
    Vivo, questo ricordo.
    BRAVA, quest’autrice.

    Lavinia on October 10, 2013 Reply
  2. Bellissimo pezzo.

    Ora c’è uno spettacolo teatrale, molto bello, che la sta ripercorrendo. E’ partito dal Piemonte da Torre Pellice, vi segnalo l’articolo.

    http://rbe.it/news/2015/03/16/la-corsa-solitaria-di-samia/

    Diego on March 16, 2015 Reply
  3. È proprio vero, che la storia di Samia prende allo stomaco. Non vediamo l’ora di vederla a teatro.

    admin on March 19, 2015 Reply
  4. Samia era una ragazza con un grande sogno, e come tale aveva diritto ad inseguirlo e a viverlo fino in fondo. E invece no, per colpa della guerra è stata costretta a vent’anni a percorrere ottomila km per raggiungere l’Europa e trovarsi un allenatore, in preda ai trafficanti di esseri umani, che li hanno trattati come “hawaian”, bestie. Poi una speranza di salvezza, le funi lanciate da quell’imbarcazione italiana, che però non ha fatto la fatica di fermarsi ad aiutarli, l’estremo tentativo di raggiungerle a nuoto e, infine, nel tentativo di raggiungere la libertà ha trovato la morte. Spero che questa storia faccia riflettere, a me ha colpito tantissimo.

    Anonymous on June 22, 2019 Reply

Leave a comment