Vito Antuofermo
Una faccia piena di pugni
Guardarsi allo specchio, ripercorrere con le dita i solchi che attraversano il viso e riconoscerne la provenienza, sapere che nessuna di quelle rughe è una ruga qualunque, ma che tutte sono figlie di un giorno, di un incontro speciale, di qualcosa che ti è sbattuto addosso e come un passaggio a livello ha diviso la tua vita in un prima e in un dopo. Vito Antuofermo è questo: una faccia piena di pugni, che racconta la storia di un uomo che non si è mai arreso.
Nel 1963 a dieci anni lascia Palo del Colle per ricongiungersi al padre immigrato in America in cerca di lavoro. New York lo accoglie e Brooklyn diventa il suo mondo, la sua palestra di vita. Sarà garzone di bottega, fattorino, giardiniere come il padre, ma una sera al culmine di un diverbio stende un paio di giovanotti e si ritrova su una macchina della polizia. Potrebbe essere l’inizio della fine, invece uno di quei poliziotti che gli ha visto usare il destro riesce a farlo affidare alla Police Athletic Legal, la palestra delle forze dell’ordine: qui, sotto la guida di Joe La Quaglia, uno che di boxe se ne intende, la sua vita cambia per sempre.
Il ragazzo italo americano è piccolo e non ha grandi muscoli, ma il pugno è discreto e poi non arretra mai, nemmeno di fronte a quel primo avversario messogli davanti tanto per saggiarne la stoffa. Vito le prende di santa ragione, ma il giorno dopo, con la faccia tutta gonfia, si ripresenta in palestra. Tutti capiscono che quello è un tipo speciale.
Il professionismo
Nel 1970 al culmine della sua carriera dilettantistica vincerà il Golden Gloves; salterà le Olimpiadi di Monaco 1972 soltanto perché la sua condizione di immigrato non lo farà rientrare né tra le scelte della squadra italiana né tra quelle della formazione statunitense. Passa allora al professionismo e già nel 1974, dopo le vittorie ottenute contro il coriaceo Denny Moyer e contro l’ex campione del mondo Emile Griffith, si imporrà all’attenzione generale. Il suo modello è Nino Benvenuti, ma dal triestino non potrebbe essere più diverso: Vito è un fighter per eccellenza, l’altro un fine schermidore. I suoi combattimenti non sono mai eleganti, ma sempre montagne di sofferenze da scalare con una forza di volontà che è più potente di qualsiasi pugno, più forte di qualsiasi dolore. La Federazione Italiana Boxe, alla disperata ricerca di nuovi talenti, si accorge di lui e lo fa rientrare in patria per contendere al tedesco Eckhard Dagge il titolo europeo dei pesi medi junior. Una sera del 1976, sul ring di Charlottenburg, Vito porta a termine con successo la missione affidatagli.
La categoria dei medi non è il massimo per le sue caratteristiche: fatica a stare nei limiti e le sue qualità un po’ ne risentono, così che dopo una prima vittoriosa difesa del titolo contro il francese Jean Claude Warusfel, Vito dovrà abbandonare la corona da poco conquistata, per consegnarla nelle mani del britannico Maurice Hope.
E’ una brutta botta per le sue aspirazioni e per le aspettative che su di lui si erano concentrate. Vito preferisce sottrarsi a tutto questo e decide di tornarsene a New York, per cercare, in quello che ormai sente come il suo vero ambiente, le forze per riprendere il cammino bruscamente interrotto.
Qualcuno lo considera già una ex grande promessa, ma non ha fatto i conti con l’orgoglio del piccolo guerriero, che nel 1978, dopo il convincente successo riportato ai danni del non più giovanissimo ma sempre temibile Bennie Briscoe, ottiene dalla federazione internazionale la chance di affrontare l’argentino Hugo Corro fresco campione del mondo.
Nell’immaginario collettivo il toro argentino dovrebbe essere l’ideale erede del leggendario conterraneo Carlos Monzón, il giustiziere del “nostro” Benvenuti. Per questa ragione, forse, ovvero per evocarne la mitica vittoria sull’italiano, gli organizzatori decidono di far disputare anche questo incontro sullo stesso ring, quello del Principato di Monaco: è il 30 giugno 1979. Nessuno dà molto credito a Vito, molti hanno ancora negli occhi le immagini della vittoria dell’argentino sul leggendario ex campione Rodrigo Valdez, e non sembra possibile, stando al suo curriculum, pensare che lo sfidante propostogli possa impensierirlo.
Ma Vito è un cuore che si traveste da pugno, un pezzo di roccia che si fa scalfire ma non spezzare, e così dopo dieci lunghe riprese in cui i pugni di Corro lo inseguono, gli si abbattono sopra come martelli, aprendo solchi sul suo viso già segnato, negli ultimi cinque round si scatena e, aggrappato alla rabbia di tutta una vita, bracca l’avversario come un animale ferito, lo investe con l’irruenza della sua boxe, mai elegante ma trascinante e impetuosa, e riesce a convincere i giudice che quello sforzo sovrumano è stato sufficiente per fargli recuperare lo svantaggio e aggiudicarsi il match.
È la sera in cui davvero tutti ci accorgemmo di Vito Antuofermo, che lo adottammo definitivamente, ma fu anche la sera in cui a bordo ring facemmo la conoscenza di un inquietante ed interessato spettatore di nome Marvin Hagler. Le cronache lo dipingevano già come il fenomeno che poi sarebbe diventato e il soprannome con cui si presentava ne era il perfetto biglietto da visita: lui era il meraviglioso “The Marvelous”, e per molti quella sera avrebbe dovuto salire lui su quel ring al posto di Antuofermo. La sfida era lanciata.
È la notte del 30 novembre 1979: a Las Vegas uno straordinario Ray Sugar Leonard sconfigge il portoricano Wilfred Benítez, diventando per la prima volta campione mondiale dei pesi welter, ma gli italiani sono svegli con le coperte sulle ginocchia, di fronte ai televisori, per seguire un altro match, la sfida impossibile del piccolo Vito ai giganti della boxe. Quindici riprese col cuore in gola a osservare la magia di quel Golia d’ebano girare attorno al piccolo Davide, picchiandolo con classe e potenza. Quindici riprese ad apprezzarne la maestosa ed efficace arte, ma tifando sempre di più per quel coraggioso paisà, che non smette mai di avanzare, che sembra non sentire le gragnole di colpi che gli stanno devastando il viso, e che con la dignità degli ultimi sembra ripetere continuamente all’avversario: «Sono ancora qui, vedi, puoi solo colpirmi ma non potrai mai abbattermi».
C’era tutta la sua vita in quella disperata voglia di non indietreggiare, di non accettare l’inevitabilità di una disparità di forze evidente, c’era la volontà di un uomo che si ribellava ad un destino che pareva già scritto rivendicando il diritto di sognare e di scrivere da solo la propria storia.
Marvin Hagler continuò a boxare con la sua classe infinita, ad affondare ganci e combinazioni, a tagliare il viso del suo oppositore incidendovi sopra sempre nuovi ricordi di dolore, ma più il tempo passava più il fascino di quei colpi perdeva il proprio appeal e negli occhi di chi osservava, pubblico e giudici compresi, finiva col lasciarsi sopraffare dall’ostinato e scomposto avanzare del suo avversario. Si sarà mai chiesto Hagler cosa stesse accadendo in quel momento, perché la gente si entusiasmasse di più per la strenua resistenza di Antuofermo, ridotto a una maschera di sangue, che per la sua evidente superiorità? Non lo sapremo mai, ma sappiamo che alla campana del quindicesimo round, senza una ragione logica apparente, tutti sentivano nell’aria profumo di miracolo e lo sguardo di Hagler tradiva incertezze inusuali per lui.
Con la faccia tumefatta, le arcate sopraccigliari devastate, gli occhi chiusi dentro due fessure di dolore, il piccolo eroe dei due mondi, un po’ di Brooklyn, un po’ di Palo del Colle, grazie a un verdetto di parità mantenne il titolo di campione mondiale dei pesi medi ed entrò di diritto nella leggenda di questo sport.
La leggenda e la fine
Fu l’apice della sua carriera, ma quella battaglia gli portò via il meglio di sé, lasciandogli in eredità solo un viso ormai troppo segnato e fragile per poter reggere ancora il peso dei colpi. La sua boxe coraggiosa ma dispendiosa gli chiese in un attimo il conto di tutta una vita e così arrivò presto la sconfitta contro l’inglese Alan Minter, al termine di una ennesima battaglia decisa da un discusso verdetto ai punti. Poi, nel 1981, il K.O. alla quinta ripresa nell’improbabile rivincita con un Hagler, che nel frattempo aveva detronizzato brutalmente Minter.
All’indomani di quel match Vito Antuofermo annunciò il suo ritiro e nella sua storia sportiva nessun rilievo ebbe il fugace e poco nobile rientro effettuato nel 1984. Terminò la sua carriera con 59 incontri disputati, 50 vinti, 7 persi e 2 pareggiati. A Long Island, dove oggi vive dividendosi tra qualche parte cinematografica di contorno e la sua attività di imprenditore nel ramo del giardinaggio, porta in giro con sorridente fierezza la sua faccia piena di pugni, una faccia che racconta la storia di una vita e di una notte in particolare, la più tragica e la più magica che un uomo possa desiderare di vivere, la notte in cui Vito Antuofermo fermò i giganti.
Marco Tonelli
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