Pierino Prati
L’asso di Coppa
È l’estate in cui i Beatles cantano Strawberry fields forever e la controcultura hippy diventa moda, anche tra i calciatori. A Nereo Rocco, tornato al Milan dopo l’esperienza al Torino, viene presentato un giocatore poco più che ventenne appena riscattato dal prestito al Savona, chioma lunga e folta, diversi anelli alle dita e pantaloni a zampa: «Signor Rocco, questo è Pierino Prati». Il Paròn lo squadra dalla testa ai piedi, lo studia qualche secondo, poi si rivolge al suo emissario: «Ti avevo chiesto Pierino Prati il calciatore, non Pierino Prati il cantante. Portalo via ché non lo voglio vedere».
Oggi che è un signore distinto, il “capellone” di allora ricorda divertito l’incontro con l’allenatore che lo avrebbe reso l’unico italiano ad aver realizzato una tripletta in una finale di Coppa dei Campioni, il regista dei suoi trionfi in maglia rossonera. «Altro che Triplete – rivendica con una punta d’orgoglio Pierino raccontandosi a Storie di Sport – in un anno e mezzo quel Milan centrò il Quadriplete, anzi il Quintuplete». Scudetto, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni, Coppa Italia e Coppa Intercontinentale: un crescendo di successi scandito da pagine leggendarie, persino cruente. Come la mattanza al Bombonera di Buenos Aires, dove l’Estudiantes trasformò il ritorno dell’Intercontinentale in una caccia all’uomo. Pierino fu il primo bersaglio.
«Ciò che accadde quella notte fu di una gravità inaudita – afferma ora – una non-partita. Dicono che fosse una vendetta contro Nestor Combin (l’argentino naturalizzato francese considerato dai compatrioti un disertore per non aver risposto anni prima alla chiamata militare, autore di uno dei tre gol con cui i rossoneri avevano vinto l’andata, ndr), ma io credo che i nostri avversari volessero innervosirci per tentare una rimonta altrimenti impossibile, data la nostra superiorità tecnica. Già negli spogliatoi ci urlavano di tutto, al punto che ritenemmo prudente limitare al minimo indispensabile il riscaldamento in campo. L’atmosfera era incandescente: sputi, monetine, minacce di morte. Nei primi minuti di gara subii un fallo a centrocampo, arrivò il portiere Poletti e mi rifilò un calcio nella schiena. Qualche minuto dopo il mio marcatore Suárez mi colpì con una testata a gioco lontano. Mi rialzai, andai in barriera per un calcio di punizione, ma non riuscii nemmeno a mantenermi in piedi: commozione cerebrale. Un’ora e mezza dopo mi risvegliai campione del mondo».
Tu eri tra i più giovani di una squadra già attempata.
«In quel Milan militavano sette giocatori intorno ai trent’anni, che arrivavano da altre società e sembravano a fine carriera. Ma era un gruppo di grande qualità, esperto, tosto, e questo fece la differenza per esempio nella finale di Coppa dei Campioni contro l’Ajax, che oggi è uno dei più forti club al mondo, mentre all’epoca rappresentava una sorpresa, nonostante tra le sue fila figurasse un certo Johan Cruijff. Dal canto nostro, dopo aver sconfitto nei turni precedenti squadre molto temibili come il Celtic Glasgow e il Manchester United, ci sentivamo carichi, e infatti tirammo fuori dal cilindro una serata magica».
Coronata dalla tua tripletta e da una prestazione superlativa di Gianni Rivera.
«La notte precedente non chiusi occhio, volevo fare gol a tutti i costi, perché è quello il compito di un attaccante. Mi arrabbiavo quando dopo una gara a secco qualcuno cercava di consolarmi dicendomi: “Pierino, sei stato ugualmente utile alla squadra”. Quella sera non sbagliai nulla, ma è vero anche che due dei miei gol vennero dai piedi di Gianni. Lui era un fuoriclasse assoluto, a mio parere il più forte giocatore della nostra generazione. Fosse stato brasiliano, sarebbe stato considerato un fenomeno mondiale».
Invece anche lui come te dovette buttar giù il boccone amaro di Città del Messico.
«I sei minuti della finale contro il Brasile? Diciamo che Gianni non era molto amato, neanche da quella stampa che poi montò il caso: pagò lo scotto di non essere un protetto, di dire sempre ciò che pensava. Quanto a me, avevo davanti un campione, Gigi Riva, oggettivamente più forte, anche se credo meritassi l’opportunità di giocare qualche minuto di quella partita, se non altro perché dopo i supplementari di Italia-Germania la squadra avrebbe beneficiato di forze fresche. Poco male: con la Nazionale mi resta l’Europeo conquistato nel 1968, e posso “vantarmi” di aver perso in carriera solo le due finali che non ho disputato».
Qual è l’altra?
«La Fatal Verona, nel campionato 1972-73, saltata per infortunio: in un certo senso fu una finale anche quella. Allora, però, la società commise l’errore di non chiedere il rinvio della partita per l’impegno di Coppa delle Coppe. Fu una delusione cocente: erano già pronti i portachiavi a forma di stella per festeggiare i dieci scudetti, invece sfumò tutto e il traguardo fu tagliato solo sei stagioni dopo».
Tu che sei stato un protagonista della Coppa dei Campioni come giudichi l’attuale Champions League?
«Resta la più prestigiosa competizione calcistica dopo i Mondiali, ma non è più un torneo, è un mercato. Manca il presupposto-base della vecchia manifestazione, aver vinto il proprio campionato nazionale. E tra sponsor e diritti televisivi, è diventata un business di proporzioni gigantesche. Anche grazie alla Champions League, oggi il calcio è un fenomeno mondiale e non mi stupirei se attecchisse in paesi come per esempio la Cina».
Ma in America, dove tu hai giocato per una stagione nei Lancer di Rochester, nonostante un Mondiale il calcio resta uno sport marginale.
«Quando giocavamo in casa riempivamo lo stadio, ma gli americani amano lo spettacolo, la giocata, non l’agonismo o la tattica, che pure sono ingredienti fondamentali del calcio. Inoltre in America gli sport sono molto televisivi, dunque legati alla pubblicità, e nel calcio l’unico vero spazio pubblicitario che si può concedere è l’intervallo tra il primo e il secondo tempo. L’ultimo limite è la debolezza del settore giovanile: manca una rete di scuole-calcio e le borse di studio universitarie piovono solo per basket e baseball».
Non pensi che per motivi diversi il settore giovanile italiano sia altrettanto in difficoltà?
«Negli ultimi tempi si è tornati a investire nei vivai, in Serie A ci sono tanti giovani promettenti in giro, anche se per loro non è facile reggere la concorrenza del mercato estero. D’altro canto, molti si chiedono dove siano i talenti di una volta, ma la domanda è in sé sbagliata. La verità è che ci sono periodi fortunati e altri meno. Non si può pensare che i Rivera, i Corso, i Baggio nascano tutti gli anni. La Spagna, per esempio, ha vissuto la sua primavera in quest’ultimo decennio, ma non credo che il suo ciclo possa durare più di altri due-tre anni».
Con la proliferazione di scuole-calcio in tutta Italia, non c’è il rischio che il settore giovanile diventi una fabbrica di illusioni?
«Solo un giocatore su 40.000 arriva ad alti livelli, e questo dato sfugge anzitutto ai genitori. Chi ha un figlio di sette-otto anni tesserato per una società importante crede di aver fatto un investimento in banca, ma così il pallone smette di essere un gioco. L’obiettivo del calcio giovanile non dev’essere produrre campioni, ma formare attraverso lo sport. I ragazzi di oggi sono troppo seguiti, anche dagli allenatori. Bisognerebbe osservarli in silenzio, lasciarli esprimere, lasciare che trovino da soli il loro gioco e soltanto in seguito intervenire, incoraggiandoli, sostenendoli. Le continue indicazioni durante una partita imbrigliano la fantasia e l’originalità. Vale lo stesso per la preparazione atletica: i ragazzi saranno anche in grado di seguire un programma di allenamento scientifico, ma non sanno più fare una capovolta».
Altri tempi quelli in cui si giocava in oratorio…
«Con i genitori che tornavano a casa la sera eravamo liberi di giocare interi pomeriggi a calcio a sette. Fu in uno di quei tornei che conobbi Gino Maldera e Nello Santin, già giocatori del Milan. Mi invitarono a farmi vedere da Nils Liedholm, all’epoca direttore tecnico del settore giovanile, e così misi la mia roba in un sacco di rafia, lo legai alla mia bicicletta e pedalai fino a Milano. La domenica c’era un’amichevole tra Milan e Juve a San Siro e prima della partita fecero giocare noi ragazzini. Segnai sette-otto gol. Mi presero».
Da supervisore del Milan Junior Camp qualche giovane interessante l’hai scoperto anche tu.
«Kingsley Boateng e Gianmarco Zigoni, entrambi attaccanti, su tutti. Il primo, oggi al Catania, già nazionale U19, è stato recentemente convocato anche da Luigi Di Biagio nell’U21; il secondo, figlio di Gianfranco (ex calciatore di Juve, Genoa, Roma e Verona, ndr) è attualmente in prestito dal Milan al Lecce».
Calcio-scommesse, doping, cori razzisti: il calcio di oggi è irrimediabilmente corrotto?
«Il calcio non può essere considerato al di fuori del contesto sociale: se la società è corrotta, come possiamo stupirci che lo sport sia corrotto? È difficile recuperare, ma dobbiamo lavorare culturalmente perché le famiglie tornino allo stadio, perché una partita persa non diventi un dramma, insomma perché il calcio torni a essere un gioco».
Per te è stato questo?
«Per me è stato un’avventura bellissima, che mi ha aiutato a crescere regalandomi infinite soddisfazioni. E il riconoscimento più grande non sono i trofei, ma la stima dei tifosi, anche di altre squadre, l’affetto e il calore di chi mi incontra per strada e dopo tanti anni dal mio ritiro mi stringe ancora la mano come se avessi smesso di giocare una settimana fa».
Graziana Urso
© Riproduzione Riservata
Ultimi commenti