Nedo Nadi
Storia di un predestinato
«Siete ancora qui, Monsieur Nadi?» domandò con un’aria regalmente divertita il sovrano in alta uniforme, come si addiceva a quella solenne occasione. «Con il Vostro permesso, conto di tornare ancora davanti a Vostra Maestà» rispose, per nulla imbarazzato, il fortissimo schermidore italiano.
Quella era infatti la terza volta in pochi giorni che Nedo Nadi saliva sul gradino più alto del podio olimpico di Anversa e, come da previsione, non fu l’ultima. Prima che i Giochi Olimpici del 1920 chiudessero i battenti ad Alberto I di Sassonia-Coburgo-Gotha, re del Belgio, sarebbe infatti toccato premiare altre due volte l’atleta azzurro, eletto protagonista assoluto di quell’Olimpiade.
Protagonista, Nedo Nadi da Livorno, lo fu sempre. Classe 1893, rimase fino alla fine padrone della propria vita, rifiutando senza tentennamenti compromessi e scelte sicuramente comode, ma che lo avrebbero reso meno libero. Come quando, già ricco e famoso, non volle esibire una bandiera fascista alla finestra di casa per festeggiare uno scampato attentato al Duce. Una decisione non proprio in sintonia con i tempi che quasi gli costò un pestaggio, fortunatamente non portato a termine, da parte di alcuni squadristi livornesi.
I primi anni
La sua storia, a ben vedere, è quella di un predestinato: il padre Beppe, severo brigadiere dei pompieri, era infatti maestro d’armi e istruttore nel circolo Fides, di cui era stato fondatore. I due figli, Nedo e il più piccolo Aldo, calcarono ben presto la pedana di quella palestra. Il training dei due ragazzi non fu all’acqua di rose. Il pompiere, allievo del grande Eugenio Pini, trattò infatti i suoi ragazzi senza sconti, allenandoli con la stessa durezza e intransigenza riservata agli altri aspiranti schermidori. Fioretto e sciabola furono preferite alla spada, le cui regole di combattimento, meno rigide rispetto alle altre due armi, erano ritenute dall’intransigente Beppe troppo indisciplinate. Ma non per il piccolo Nedo che, affascinato forse proprio dalla sostanziale assenza di convenzioni che rendono il combattimento con la spada molto simile a un vero duello, decise di impararne la tecnica, studiandola di nascosto al padre.
I due fratelli vennero dunque su a pane e scherma e i risultati non tardarono ad arrivare. Nel 1905, appena dodicenne, Nedo vinse la sua prima gara ufficiale a Vigevano nella categoria giovanetti di fioretto, mentre nel 1909 riportò a Vienna il primo successo internazionale nel Torneo dell’Imperatore. La Federazione, colpita dalla bravura del ragazzo, lo convocò appena diciottenne nella squadra che avrebbe gareggiato all’Olimpiade di Stoccolma del 1912. Una fiducia ripagata con la vittoria nel fioretto individuale dove, tra la sorpresa generale, il giovanotto sconfisse in finale il connazionale Pietro Speciale. Fu, quello, l’unico oro olimpico italiano nella scherma in terra scandinava e ciò fece aumentare di molto le già considerevoli quotazioni dell’atleta azzurro. L’irresistibile scalata al successo fu però interrotta dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nedo, arruolato come ufficiale di cavalleria, si fece quattro anni al fronte e fu tra i primi ad entrare nella Trento liberata. Un’impresa coraggiosa grazie alla quale riuscì ad aumentare la sua già nutrita collezione di medaglie con altre due decorazioni, questa volta al valor militare.
Con la fine del conflitto, Nadi riprese ad allenarsi furiosamente finché, in poco più di un anno, riuscì a tornare ai livelli di un tempo. Era una corsa contro il tempo: il suo chiodo fisso era infatti l’Olimpiade di Anversa del 1920, il suo sogno, nemmeno tanto segreto, quello di vincere le medaglie in tutte le discipline, sia a livello individuale che a squadre. Un risultato che l’atleta livornese, come vedremo in seguito, non riuscì a conseguire solo per pura sfortuna.
Alla vigilia dei Giochi Nedo Nadi, nominato capitano della spedizione azzurra, ottenne dalla Federazione di selezionare personalmente la squadra olimpica. La scelta si rivelò azzeccata, perché il livornese, da vero leader, trascinò i suoi uomini sul gradino più alto del podio olimpico in tutte e tre le discipline – fioretto, spada e sciabola –, vincendo il concorso a squadre rispettivamente contro la Francia, il Belgio e ancora la Francia.
Ma Nedo non si fermò qui. In uno stato di forma strepitosa, si aggiudicò l’oro anche nei concorsi individuali di fioretto, battendo in finale il transalpino Philippe Cattiau, e di sciabola contro il fratello Aldo che, a sua volta, era diventato un ottimo schermidore. Mancò l’en plein solo per un soffio, perché non poté disputare la gara di spada individuale, causa un violento attacco intestinale. Poco male. Con cinque ori al collo, l’Olimpiade di Anversa aveva consacrato un atleta formidabile, elegante e versatile, ma anche agile e sicuro. Quando tirava di scherma, dissero in molti, “pareva che danzasse”. Un campione di grande classe, Nedo Nadi, generoso con gli avversari che non umiliò mai, lasciando sempre agli sconfitti punti di consolazione e non rifiutandosi di dispensare a chiunque consigli tecnici.
Il professionismo
Al massimo della fama accettò un’offerta del Jockey Club di Buenos Aires che lo tesserò come atleta professionista e istruttore. Una trasferta non felice, conto in banca a parte: Nedo, infatti, contrasse un morbo oscuro che, alla fine del 1923, lo fece tornare in Italia. Il campione si riprese a fatica e, dopo essersi sposato, ricominciò ad allenarsi con impegno e a gareggiare tra i professionisti, ritornando ben presto alla vittoria.
Poi, logorato nel fisico, disse basta alle gare e nel 1931 accettò di allenare la Nazionale italiana. Un ruolo voluto da Benito Mussolini in persona, nonostante anni prima avesse dovuto inghiottire dal livornese un no gentile, ma definitivo, alla sua proposta di diventare un simbolo dello stato fascista. Un rifiuto in linea con la sua volontà di restare sempre un uomo libero, senza condizionamenti.
Anche questa volta il campione fece centro. Mettendo a disposizione dei suoi atleti le sue conoscenze tecniche e trasmettendo loro fiducia e sicurezza, la scherma azzurra trionfò anche ai Giochi Olimpici di Los Angeles, nel 1932, e ancora di più a quelli di Berlino, quattro anni dopo: sei medaglie d’oro, sette d’argento e quattro di bronzo furono lo straordinario bilancio complessivo delle due spedizioni olimpiche guidate dal CT labronico.
Al suo ritorno in patria fu nominato Presidente della Federazione di Scherma, ruolo che, alternato a quello di giornalista, ricoprì fino al 29 gennaio 1940, quando un ictus lo colpì nella sua casa di Portofino. Quella sera stava pregando, quando improvvisamente si fermò, afferrò la mano della moglie, si accarezzò la tempia, per poi reclinare il capo per sempre. Non prima, comunque, di aver rifiutato i disperati inviti della sua sposa a sedersi.
Protagonista fino in fondo, Nedo Nadi da Livorno. Anche davanti alla morte, mentre se ne andava, volle restare padrone di sé stesso.
Marco Della Croce
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