Inter Campione del Mondo 1964-1965
… e il cielo si tinse di nerazzurro
Favolosi Anni Sessanta. I Beatles, quando uno poteva sognare di volarsene a Londra e magari incontrarci John a passeggio per Carnaby Street. Ancora senza Yoko, per il momento. Il Vietnam, Nixon boia e Muhammad Ali che in guerra non ci voleva proprio andare, e piuttosto la galera. Che Guevara, la Revolución, il basco con la stella. Oppure Giovanni il Buono, aspetto pacioso e sorriso che illuminava il mondo da una finestra romana.
Anni Sessanta di musica, di guerra, di speranze. Anni Sessanta di sport.
Quella filastrocca ripetuta da noi che eravamo bambini, mantra inconsapevole per esorcizzare le piccole battaglie di ogni giorno, la pagella, la mamma che ti urla di rientrare e tuo fratello che ti frega il Topolino. Sarti, Burgnich, Facchetti. Volti sulle figurine Panini, che ci scambiavamo dopo la scuola. Se mi dai Domenghini, ti do Hamrin e Pascutti, che è pure una “valida”. Volti familiari da cugini più grandi, i baffetti di Sandrino Mazzola e lo sguardo da bimbo cresciuto di Gianni Rivera, due che di calcio ci sapevano eccome, eppure li chiamavano abatini. E i derby ce li giocavamo a scuola un mese prima che a San Siro, a difendere quel portentoso chiacchierone del Mago o le astuzie da triestino saggio del Paròn.
Ché allora le grandi squadre erano grandi davvero, il Real delle sei Coppe, il Benfica della Perla del Mozambico. Liverpool, Everton, Barcellona, tanto per gradire. Qui da noi, il Milan e il Bologna di Fuffo Bernardini, lo squadrone che tremare il mondo fa.
E la Grande Inter, appunto. Una corazzata con i controfiocchi, diciamolo. Con un gioco che poteva piacere o non piacere. E un allenatore che potevi amare oppure odiare, altro che Mou, che anche gli avversari sotto sotto lo rispettano.
No, HH milanisti e juventini lo detestavano proprio, e neanche troppo cordialmente. Vinceva, però. Accidenti se vinceva. Così gli interisti lo adoravano. Per forza: li aveva portati lassù. In cima al mondo, a sollevare per due volte al cielo un pallone d’oro poggiato sopra un trespolo. Il trofeo calcistico più prestigioso del pianeta, per i tifosi, con i migliori omaggi alla Coppa Rimet.
Bisognava arrivarci, a lottare per quella palla dorata. L’Inter c’era arrivata la prima volta nel 1964, dopo una finale da sogno di Coppa Campioni, in cui i ragazzi del Mago avevano strapazzato la squadra più forte mai apparsa su un campo di calcio europeo sino ad allora. Los Blancos, los Merengues. Il Real Madrid, insomma, quello di Francisco Gento, di Ferenc Puskás, di José Santamaria. Di Alfredo Di Stéfano.
Prater di Vienna, 27 maggio 1964. Mazzola, Mazzola, Milani, e chi se ne frega del gol di Felo… le Furie Bianche sono domate, l’Internazionale di Angelo Moratti ed Helenio Herrera è Campione d’Europa.
Il mondo, ora. Non che sia facile. Di là dal mare ci sono squadre dai nomi leggendari, da favola del calcio. Che già a pronunciarli fanno sognare. Il Peñarol di Montevideo, dalle improbabili magliette giallo-nere e Pedro Virgilio Rocha a trascinare tutta la squadra. Il Santos, che ha Pelè e perciò può permettersi di conquistarne due di seguito, di titoli. Anche se poi quello soffiato al Milan nel 1963 qualche aiutino arbitrale lo ha ben avuto. Il Boca, dalle radici così italiane che a Buenos Aires li chiamano gli Xeneizes: non ha ancora vinto nulla, per dire la verità, ma è sempre là, tra le più forti. E infine Los Diablos Rojos, l’Independiente dell’Avellaneda, la prima squadra argentina a conquistare la Copa Libertadores, il titolo del Sud America.
È proprio con questa squadra deve fare i conti l’Inter, e sono conti che dureranno per cinque partite.
Si inizia il 9 settembre 1964, allo Stadio Independiente dell’Avellaneda. Una bolgia infernale di 50.000 spettatori urlanti, con gli italiani di Argentina che cercano come possono di contrastare i tifosi dei Rojos. Che oltretutto hanno il dente avvelenato da una delle solite guasconate di Don Helenio, il quale alla vigilia ha candidamente dichiarato ai giornali: «Non me ne frega niente dei tifosi avversari».
Un incontro avvincente, equilibrato, giocato con abilità da due formazioni compatte e ottimamente organizzate. Al 33’ del primo tempo l’equilibrio si spezza. Il terzino Tomás Rolan, un tipo tosto e quasi inossidabile, ha un grave infortunio e si frattura il perone. All’epoca non sono permesse sostituzioni e l’Independiente deve rimanere in dieci uomini. L’Inter cerca di approfittarne, ma ha sottovalutato l’orgoglio degli argentini. Sospinti dagli indemoniati aficionados, i Rojos si gettano in furiosi quanto confusi attacchi, che i nerazzurri controllano con relativa facilità.
Al 12’ della ripresa, accade l’impensabile. Su un colpo di testa piuttosto innocuo del numero 10 Mario Rodríguez, Giuliano Sarti manca clamorosamente la presa, e la palla oltrepassa beffarda e implacabile la linea bianca. Uno dei migliori portieri di tutti i tempi, Sarti, ma che due o tre volte in carriera si trova ad incappare in questi infortuni eclatanti. In partite cruciali, purtroppo. Comunque, la partita finisce qui, con l’Inter che si produce in sterili tentativi di rimonta e l’Independiente che non sa approfittare del contraccolpo psicologico dei nerazzurri.
Il 23 settembre si gioca il ritorno a San Siro, che i ragazzi di Moratti devono vincere ad ogni costo. Compiono la missione con eleganza e relativa facilità. Al settimo minuto Baffo Mazzola fa partire dai sedici metri una vera bomba, che si insacca alle spalle di Miguel Ángel Santoro, vanamente proteso in tuffo, a filo del palo sinistro. San Siro esplode. L’Inter imperversa, l’Independiente non sa reagire. Alla mezz’ora, scende sulla fascia destra Saul Malatrasi, difensore ecclettico quanto modesto e riservato, che si accentra ed effettua un cross. È Mariolino Corso, Mandrake, ad anticipare di testa il solito Mazzola e ad insaccare, ancora sul palo sinistro. La partita riserva altre emozioni. Aurelio Milani e Jair si mangiano dei goal fatti, e Sarti riscatta l’andata deviando di piede una bordata terrificante di Luis Ernesto Suárez. Poi, al 25’ della ripresa, un’entrata veramente assassina di Roberto Oscar Ferreiro sul Luisito Suárez dell’Inter provoca l’espulsione del difensore argentino, vanificando ogni residua speranza di rimonta.
Occorre la bella. Il regolamento prevede che l’eventuale spareggio si giochi negli anni dispari in Sudamerica e in quelli pari in Europa. Come sede della partitissima viene scelta proprio la tana dei rivali in quello che si stava avviando a divenire il derby d’Europa: il Santiago Bernabeu di Madrid.
I madrileni non possono certo tifare per l’Inter e per i nerazzurri è come giocare in Argentina, con 60.000 (non moltissimi, in realtà) spagnoli a sostenere compatti i Rojos.
Gli infortuni hanno costretto Herrera a schierare Malatrasi al posto di Tarcisio Burgnich, infortunato, Joaquín Peirò per Mazzola e Angelo Domenghini per Jair. Significa rivoluzionare la squadra. Piove con insistenza. Il campo è pesantissimo, quasi impraticabile, e Peirò e Domenghini sono subito vittime dei crampi. Sarti invece è in serata di grazia e compie alcuni interventi che salvano il risultato. L’Independiente domina sul piano fisico, con attacchi assillanti, e persino Luisito Suárez deve retrocedere a difendere. L’Inter ribatte con pericolosi contropiedi, condotti da Milani e dal commovente Peirò. Finisce 0-0, con un goal di Raúl Emilio Bernao annullato per un netto fuorigioco a cinque minuti dalla fine.
Si va ai supplementari, altri trenta minuti di sofferenza per i giocatori stanchissimi. Nonché per chi, in Italia, segue la partita nel suggestivo bianco e nero del Primo Canale RAI. All’Inter il pareggio basta, per il gol in più segnato nelle due gare regolamentari, e chi se la sente di puntare 10 lire su un risultato diverso, con i ventidue che si trascinano nel fango madrileno? Invece no.
Eupalla, breriana musa del calcio, ha deciso in maniera diversa. E il suo braccio, anzi il suo piede armato, è un mingherlino di San Michele Extra, un genio di nome Mario Corso. Che, in quanto a piedi, vanta frequentazioni ben più altolocate di una semplice musa. Lui è il Piede sinistro di Dio, e al 6’ del secondo tempo supplementare lo ricorda Urbi et Orbi. Mariolino entra in possesso del pallone, si beve due avversari nel cerchio di centrocampo, e allunga a Milani sulla destra.
Aurelio, stoico nella sua dedizione alla causa, scende sulla fascia, poi effettua un traversone verso l’area argentina che sembra perdersi sul fondo. Peirò, appostato sulla linea, riesce solo il Cielo sa come a mantenere la palla in campo, per poi crossare in acrobazia verso il centro dell’area avversaria. Quel che accade dopo è accademia del football, è poesia sportiva. Corso stoppa di petto, si fa scendere il pallone lungo il corpo sino al sinistro fatato e pennella di collo pieno un elegante quanto maligno tiro a mezz’altezza. Imparabile.
E’ il trionfo. L’Inter è Campione del Mondo: è la tarda serata di sabato 26 settembre 1964. Finisce con i ventidue che sportivamente si abbracciano a centrocampo, e con i ragazzi di Herrera che sollevano il pallone d’oro per un giro d’onore che è già storia.
La rivincita dell’anno dopo, tra le due squadre che si sono confermate campioni continentali, è molto meno emozionante. Per una ragione semplice: l’Inter è ancora più forte, più convinta dei propri mezzi, pronta «ad affrontare anche Marte», come scrivono su di un cartello i tifosi.
A San Siro, l’8 settembre 1965, non c’è partita. Le danze le apre Peirò al secondo minuto, al termine di una bella azione manovrata. Suárez, servito qualche metro fuori dall’area, si accentra e dall’altezza del dischetto serve il centravanti suo connazionale, liberissimo sulla sinistra. Peirò non ha difficoltà ad insaccare, e l’incontro è già segnato. Passano meno di venti minuti e c’è il raddoppio. Jair riprende al limite dell’area una smanacciata del portiere Santoro e tira a botta sicura. Sulla linea ribatte fortunosamente un difensore argentino, ma sulla palla arriva come un rapace Sandrino Mazzola e ribadisce in rete. Il goal del definitivo 3-0 è da cineteca. Giacinto Facchetti, in una delle sue frequenti proiezioni offensive, scodella un invito per il solito Mazzola, che, dalla linea dell’area piccola, si produce in una sforbiciata elegantissima. Per il povero Santoro non c’è scampo, e il pallone si insacca senza rimedio all’incrocio sinistro dei pali.
Il ritorno è più difficile, anche per il clima intimidatorio che, a differenza dell’anno precedente, si è creato all’Avellaneda. Prima dell’incontro, i nerazzurri sono bersagliati da una fitta sassaiola, che provoca escoriazioni e contusioni a Peirò, a Suarez e allo stesso Helenio Herrera. In campo, il gioco è durissimo, con falli a ripetizione degli argentini. Nonostante tutto, Sarti (a sua volta fatto segno ad un fastidioso lancio di biglie di vetro) corre pochi rischi. Tra i milanesi, giganteggia Mariolino Corso. Mandrake sembra quasi avere un conto in sospeso con i Rojos e fa letteralmente impazzire i suoi controllori e soprattutto gli italo-argentini presenti sugli spalti dell’Avellaneda, che si sgolano per osannarlo. «Quel mancino vale più di Meazza e Demaría messi assieme», si sente dire in tribuna da alcuni addetti ai lavori. Un tantinello esagerato, se vogliamo, ma rende l’idea.
Lo 0-0 non si schioda, e questa volta non occorrono spareggi. Nella tarda serata italiana del 15 settembre 1965, i tifosi nerazzurri incollati ai transistor (la RAI trasmetterà la partita in differita in seconda serata il giorno 16) possono solo immaginare capitan Armando Picchi che solleva raggiante la seconda Coppa Intercontinentale.
L’Inter è ancora regina del mondo, per un’ultima volta. Lo squadrone milanese per vari motivi non vincerà più in campo internazionale, pur dominando ancora in Italia e lottando alla pari con il Real Madrid in Europa per altre due stagioni.
Poi, giovedì 1 giugno 1967, un altro imprevedibile infortunio del grande Giuliano Sarti segnerà a Mantova la fine della Grande Inter e di un’epoca felice e gloriosa. L’epoca di Angelo Moratti e di Helenio Herrera, il Mago… Ma questa è un’altra storia.
Danilo Francescano
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