James Naismith
L’inventore del basket
Il compito di James Naismith doveva essere quello di disciplinare una classe di ragazzi annoiati, ovviare al malumore provocato dal lungo inverno con un intrattenimento piacevole e dinamico. Neppure immaginava, quando alzò timidamente la voce durante la riunione scolastica, quale idea gli sarebbe venuta in soccorso per giustificare quell’intervento: un’invenzione che avrebbe impegnato il tempo libero delle generazioni successive e non solo. In quel momento gli parve, piuttosto, di essersi appena preso una bella gatta da pelare, cacciandosi in un inghippo con cui avrebbe dovuto confrontarsi per i giorni successivi. Fu così che nacque il basket.
I colleghi si lamentavano: gli studenti erano disinteressanti, svogliati, sfogavano la loro energia durante le lezioni facendo chiasso anziché concentrarsi. Era quello il periodo più duro dell’anno, il freddo costringeva i ragazzi fra spazi chiusi con l’unica e obbligata compagnia dei testi scolastici. La reclusione aveva il solo effetto di renderli irrequieti e intrattabili. I professori si incolpavano a vicenda per l’incapacità di gestire la classe, rimproveravano la scarsa attenzione che erano in grado di suscitare e, d’un tratto, il silenzioso e mite Naismith, dal retro dei suoi occhialetti tondi e sempre appannati, emise una sentenza che lasciò tutti esterrefatti: «Il problema non è dei ragazzi, ma del sistema che stiamo usando». L’accusa esplose nella stanza come una bomba, Naismith se ne rese conto e cercò di rimediare: «Per motivare i ragazzi dobbiamo adottare un altro sistema, di tipo più ricreativo». I colleghi lo fissavano ad occhi sbarrati e lui, incespicando con le parole, tentava di spiegarsi: «Qualcosa che risvegli il loro istinto al gioco, al divertimento». Quel discorso impacciato venne interrotto dal sovrintendente Luther Gulick che, dando a Naismith una pacca sulla spalla, esclamò: «Ottimo, James. Occupati tu della classe, vedremo cosa sarai capace di fare». Tanta fiducia riposta in un solo uomo appariva quasi un guanto gettato a terra in segno di sfida.
A Naismith, insegnante di educazione fisica, fu subito chiaro il peso dell’incarico. Adesso gli toccavano diciotto ragazzi da addomesticare, oltretutto entro un termine stabilito: la fine dell’inverno. E l’inverno si era già annunciato, gelido e impietoso, come il suo più acerrimo nemico. Fuori infuriavano bufere di neve, mentre all’interno della palestra riecheggiavano gli sbadigli degli alunni impegnati in esercizi di riscaldamento che ormai praticavano per inerzia, senza interesse e volontà.
Un’idea ripescata dai rifiuti
Le richieste fatte da Gulick erano state diligentemente annotate da Naismith su un blocco per gli appunti: doveva trattarsi di un gioco praticabile al coperto, divertente e facile da apprendere, non violento e, soprattutto, non dispendioso per le casse della scuola. Su questi quattro punti la mente di James si arrovellava, mentre il cortile della Young Men’s Christian Association di Springfield, Massachussets, si imbiancava della neve appena caduta di inizio dicembre. Ogni fiocco sembrava scandire il tempo, più rapido e silenzioso delle lancette di un orologio.
La fretta costrinse il professore a notti insonni, trincerato dietro piramidi di scartoffie. Doveva trovare un’attività che fungesse da intermezzo fra le più popolari: il baseball, praticato da inizio primavera fino ad ottobre, ed il football americano, sport autunnale per eccellenza. Naismith rifletteva sulle regole di questi giochi nazionali, combinandole con altre di origine più antica. Nei suoi schizzi riportò il celebre po-ta-pok Maya e il tchlatchli degli Atzechi, attività dal significato religioso che prevedevano il passaggio di una sfera attraverso una serie di anelli. Il problema però era sempre lo stesso: trovare il modo di regolamentare il gioco, stabilire il punteggio.
Quei disegni intricati non gli erano d’aiuto e puntualmente finivano accartocciati fino a centrare il cestino, un ripetitivo susseguirsi di lanci che aumentavano lo sconforto finché quel gesto automatico non venne fotografato dagli occhi di James. Il suo braccio si era appena mosso seguendo il movimento tecnico della parabola, armonizzato dal riflesso meccanico della mano. Quella pagina accartocciata fu una folgorazione. Naismith si ricordò di un gioco praticato sempre da bambino, in Ontario, quando la giornata si poteva perdere dietro a chimere e i doveri parevano lontani. Si chiamava Duck on a Rock, letteralmente “Anatra su una roccia”, consisteva in una gara a chi per primo gettava a terra la pietra, detta appunto duck, servendosi di un sasso. Colpito il bersaglio, il giocatore correva a recuperare il sasso, mentre un goalkeeper, riposizionato il duck, doveva afferrare l’avversario prima che portasse a termine l’impresa. Il gesto disegnato dal suo braccio nel gettare il foglio nel cestino ricordò a James la parabola da compiere per il lancio del sasso. D’un tratto gli episodi si collegarono e la soluzione apparve d’improvviso come se gli fosse stata sotto gli occhi da anni.
Quella stessa notte Naismith stillò i primi cinque principi del suo nuovo gioco, successivamente rielaborati in tredici regole fondamentali. La segretaria del college, Miss Lyons, batté a macchina ciò che inizialmente era solo uno scarabocchio frutto di un sonno carente e un’angoscia crescente. Il 15 gennaio 1892, le regole apparvero sulla prima pagina del Triangle, il giornalino scolastico, sotto il titolo A new game. I cinque principi stabiliti da Naismith erano brevi e semplici da comprendere: il gioco sarebbe stato praticato con una palla servendosi del solo contatto delle mani, non era consentito camminare con il pallone in mano, i giocatori erano liberi di prendere una posizione sul campo di gioco dovunque volessero, tuttavia non era ammessa nessuna forma di contatto fisico. Infine la novità più inaspettata: il gol sarebbe stato collocato orizzontalmente in alto, per la precisione a dieci piedi da terra. L’attrezzatura venne fornita dall’economo del college, Mr. Stebbins, che portò delle grandi ceste in vimini, in principio modesti contenitori di pesche ora consacrati ad uno scopo più nobile.
La prima squadra
Il professore sperimentò la sua invenzione il 21 dicembre 1891, servendosi dell’entusiasmo della sua classe. Organizzò un gruppo di diciotto giocatori suddiviso in due squadre da nove componenti ciascuna, passato alla storia come First Team. La prima partita venne giocata in Armony Street, la strada dell’armonia, e terminò un punto a zero con un canestro messo a segno da William Chase che, segnato il tiro, dovette recuperare la palla in cuoio arrampicandosi su una scaletta. Allora i canestri erano ceste in legno e non presentavano fori alle estremità; bisognerà attendere il 1892 perché Lew Allen di Hartford, Connecticut, realizzi i primi canestri cilindrici di rete metallica. Intervennero poi altre modifiche all’idea embrionale di Naismith: il palleggio non era previsto dalle regole, ma divenne ben presto una necessità per sfuggire ai marcamenti aggressivi.
Ritocchi a parte, il piano sembrava funzionare e il professore fu lieto di convalidarlo istituendo la prima competizione ufficiale. Dopo la pubblicazione del regolamento, l’11 marzo 1892 il match si svolse di fronte ad un pubblico di oltre duecento spettatori. Sotto gli sguardi increduli dei curiosi si fronteggiavano, in schieramenti opposti, insegnanti e studenti del YMCA di Springfield.
Naismith aveva passato la palla ai colleghi che l’avevano guardato basiti alla riunione quel lontano giorno di dicembre, toccava a loro ora stabilire le sorti del gioco che tanto avevano snobbato. Professori e allievi correvano a grandi falcate su quel campo condiviso, accaldati sotto pesanti tute a maniche lunghe, con il fermo obbiettivo di impossessarsi della palla.
Vinsero i docenti stabilendo il punteggio schiacciante di 5-1; la vittoria venne sancita dall’autore di tutti i canestri, l’inarrestabile Amos Alonzo Stagg, mentre fu il giovane Edwin Ruggles a mettere a segno l’unico punto d’onore per la sua squadra. La conclusione del match accese risentimenti puramente scolastici, ma per James Naismith quel punteggio finale si rivelò la conferma di una prova riuscita.
Naismithball
E’ difficile individuare con esattezza l’istante in cui James, appena trentunenne, realizzò di aver inventato uno sport grandioso, destinato a tramutarsi in vocazione o in febbre per l’umanità. Probabilmente non se ne rese conto, infatti quando il suo studente, Frank Mahan, gli suggerì di dare al gioco il nome di Naismithball, lui rifiutò sostenendo di non trovarlo adeguato. Preferì che la sua invenzione assumesse un titolo generico legato ai pratici attrezzi di cui si componeva: una palla e un canestro, in inglese basketball. Una semplicità disarmante a camuffare la genialità dell’uomo che aveva trascorso notti insonni nel tentativo di idearlo.
In James viveva l’anima umile della sua gente, proveniente dagli inverni aspri e ostili del Canada dove era nato e cresciuto fra gli insegnamenti di uno zio boscaiolo e il duro lavoro nella fattoria di famiglia. Rimasto orfano di genitori in tenera età, crebbe sotto la guida dello zio Peter Young e della nonna materna, badando ai fratelli minori Annie e Robert.
Ad assicurargli un futuro fu proprio quello zio rude, consapevole della fatica opprimente di un lavoro fisico che screpolava le mani e incurvava la schiena. Peter Young lo aveva costretto a riprendere gli studi dopo un abbandono momentaneo durante il quale James si era dedicato all’attività di taglialegna. Una giusta pressione e ben riuscita: con il sostegno dell’insegnante Peter McGregor aveva concluso gli studi in soli due anni superando anche l’esame di greco e latino necessario per iscriversi al college.
Proprio negli anni universitari James si era avvicinato all’attività sportiva con profitto, mantenendo comunque fermo l’intento di diventare ministro di culto presbiteriano. Aveva iniziato a giocare a football americano sostituendo un giocatore infortunato, poi si era dedicato anche all’atletica leggera e al lacrosse. Conseguita una laurea in filosofia aveva deciso di abbandonare gli studi religiosi poco prima di prendere i voti, reinventandosi invece come insegnante di educazione fisica allo Springfield College. Un percorso intricato e denso di colpi di scena che di punto in bianco lo aveva portato alla ribalta sotto l’insegna dello sport.
Un gioco di dimensione mondiale
Il professor Naismith assistette alla scalata della sua creatura: da quei cinque punti appena accennati su un pezzo di carta, il basketball si preparava ad assumere una dimensione mondiale. Fu aggiunto come gioco olimpico alle Olimpiadi di Berlino del 1936, lo stesso Naismith partecipò alle premiazioni consegnando la medaglia d’oro agli Stati Uniti che lo avevano riconosciuto come proprio cittadino nel 1925.
James continuò a supportare il suo sport come allenatore nella Kansas University dove, dopo aver conseguito una seconda laurea in medicina, si dedicò anima e corpo a coltivare giovani promesse del basket. Ma da coach fu l’unico ad ottenere un record negativo nella storia dell’ateneo con cinquantacinque incontri vinti e sessanta persi.
Si giustificò affermando che «Il basket non lo si può allenare, lo si deve giocare e basta». Dopotutto lui, quel gioco, lo aveva inventato per i suoi ragazzi.
Alice Figini
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