Jean Pierre Papin
Nove di cuore
Non servono nome e cognome: è ricordato e acclamato attraverso le sue iniziali, JPP. Tre lettere che ben rappresentano il suo essere: genuino, semplice, sorridente, disciplinato, leggendario.
È difficile presentarlo: è uno dei quattro francesi Pallone d’Oro, premio che si è aggiudicato nel 1991, dopo Kopa e Platini; Henri Michel lo fa debuttare in nazionale contro l’Irlanda del Nord senza che abbia mai giocato nella prima divisione; partecipa attivamente alla grandeur dell’Olympique Marseille del discusso presidente Bernard Tapie ed è coprotagonista nell’epopea di due anni di successi senza sconfitte del Milan.
A vent’anni di distanza da quei trionfi incisi nella memoria, Jean Pierre Papin percorre la Francia per la sua partita privata giocata sul campo della solidarietà, squisitamente disponibile a soddisfare curiosità e sondare aneddoti della storia del calcio di cui è testimone e protagonista. Porta ancora il numero nove, la maglia più importante tra i club in cui ha giocato. La maglia della famiglia, la squadra del cuore. Nove di cuore, appunto, come la sua associazione Neuf de coeur, che vive dell’immagine del bomber per aiutare finanziariamente bambini e ragazzi con lesioni cerebrali.
JPP nella sua carriera ha giocato in sette club diversi, ne ha allenati quattro – «e ho ancora voglia di cimentarmi nelle vesti di commissario tecnico», ha raccontato a Storie di Sport, è commentatore per una tv del Qatar, cavaliere della Legione d’Onore francese. Era a Bastia in quella tragica finale di coppa di Francia del 1992 quando crollò lo stadio Furiani. Era nella semifinale di Champions League del 1991, ricordata come quella del triste episodio delle luci di Marsiglia (costerà al Milan l’esclusione per un anno dalle Coppe Europee), con la divisa biancoceleste e c’era anche per la rivincita milanista, stavolta con i colori rossoneri (ma la rivincita non arriverà). Alla prima esperienza in panchina, JPP ha portato lo Strasburgo in prima divisione con una giornata di anticipo grazie alla vittoria per 2-1 col Metz.
Mentre in campo Monsieur Gol segna una partita sì e una partita no – nei suoi due anni al Milan mette in rete 33 palle in 62 gare – in famiglia si consuma un dramma dolorosissimo: la primogenita di JPP e Florence – amore incontrato in aereo – ha problemi che non si riescono a diagnosticare.
«I medici ci avevano detto che non avrebbe mai parlato, mai camminato» ricorda la moglie del calciatore «ci hanno consigliato di trovare una clinica privata dove farla sopravvivere senza dolore fino alla morte».
«È stato durissimo», sottolinea JPP, alle prese con un tiro che non può dribblare, non può rinviare, non può e non vuole mettere in angolo: «Quando siamo usciti dallo studio con Florence ci siamo abbracciati, lungamente, semplicemente». Poi, «un giorno ci consigliano delle cure negli Stati Uniti. Erano costosissime, distanti, ma si trattava di nostra figlia e volevamo darle una speranza. Non è down, non è autistica, per la medicina è un punto interrogativo».
Ecco allora che JPP, che in quel momento gioca nel Bayern di Trapattoni, salta gli allenamenti e vola negli States.
«I media si sono accaniti contro di me, ero considerato menefreghista, finito». L’atleta che ha dato il nome a un modo di giocare con le celebri “papinades”, i suoi gol quasi acrobatici, quando rientra dall’America rilascia una commovente intervista a Canal+. E a Monaco in tre giorni fioccano le lettere. Mentre sui giornali lo attaccano, nella posta privata lo sostengono.
Non che JPP non fosse abituato agli attacchi: nel suo primo periodo a Marsiglia addirittura le sue iniziali eran divenute l’acronimo di “J’en peux plus”, ovvero “non ce la faccio più”. È vero, era già il ragazzo dei gol. Ma ne sprecava troppi, non ingranava.
«Tapie voleva vincere, tutto e subito. Con lui c’era evidentemente un problema: arrivava a mezzogiorno, parlava poco con noi giocatori, diceva qualcosa solo nei match importanti, poi urlava con i giornalisti».
Tuttavia, compie il suo programma: nel campionato 1986-87 l’Olympique è seconda dietro al Bordeaux, l’anno dopo JPP è capocannoniere e nella stagione 1988-89 Tapie centra l’obiettivo, i marsigliesi vincono il campionato per la sesta volta nella storia, segnando una storica doppietta con la vittoria in Coppa di Francia. Papin è l’uomo copertina.
Marsiglia è solare, lo accoglie da eroe, il Velodromo della Provenza lo saluta nel 1992 come se fosse un teatro (dove sta muovendo i primi passi Zinedine Zidane); un’accoglienza ben diversa da quelle che gli riserveranno la lussuosa Milano e, soprattutto, la bavarese Monaco.
«Non so cosa mi sia successo. Al Bayern io, che non mi ero mai infortunato, mi sono fatto male al ginocchio. In un anno ho subito cinque operazioni».
Stagioni dure in terra teutonica. E il ricordo di Milano?
«Un sogno. Certo, lasciare Marsiglia non è stato facile. Lo sport è così un giorno sei in alto, il giorno dopo sei giù. Io volevo intraprendere un’altra sfida. Al microfono davanti a quarantamila persone ho dovuto annunciare che partivo per un club nemico. Ho un souvenir incredibile di quel giorno. Ma andavo a giocare con la squadra che era in quel momento più forte. In particolar modo andavo a giocare con Marco van Basten, con cui non vedevo l’ora di provare l’intesa».
Una complicità cercata che non avrà occasione di essere testata e che lascerà all’esperienza rossonera un retrogusto amaro, sia da parte dei tifosi che da parte di dirigenti e giocatori.
«È stato deludente. Marco si è infortunato, ha giocato poco, abbiamo fatto soltanto un paio di partite di campionato all’inizio e una partita di Uefa. Quanto eravamo temuti a Madrid! Non avrei dovuto lasciare», conclude JPP, che tuttavia ha avuto una grande intesa con un altro Marco, Simone. E trova spazio nella storia del Milan grazie alla sua aura da bravo ragazzo e soprattutto le sue imparabili rovesciate.
Se non volevi, perché sei andato via?
«Eravamo in sei, avevano bisogno di tre. A me è rimasto di avere vissuto, seppur per due sole stagioni, un sogno. E in questo sogno aver vinto tutto». D’altronde, sin da bambino Jean Pierre non ha che un interesse calcistico. Si divertiva più al campo che non a scuola.
E allora come si fa a smettere?
«Quando non si ha più voglia di fare allenamenti, ecco, quello è il momento in cui bisogna smettere. Io ho chiesto di fare tre allenamenti a settimana e di stare tre giorni a casa. Eravamo tornati in Francia, credevo di poter allentare un po’ i ritmi ma senza allenamento ti mangiano la testa».
E Florence nel frattempo?
«Io» interviene la moglie «lavoravo dieci ore al giorno con nostra figlia, secondo la terapia statunitense. Abbiamo avuto insieme altri due figli, e tutti abbiamo aiutato. Per dieci ore al giorno la stimolavo, le mostravo colori, le parlavo. E i risultati ci sono stati: è meno aggressiva, riesce anche a leggere, certo non è indipendente e non ci illudiamo che lo sia un giorno e sono cosciente del fatto siamo privilegiati, in un certo senso, ad esserle potuti stare così dietro. Ma ogni conquista di oggi è una pillola di benessere per domani. Ho altri quattro figli – spiega JPP – nel momento in cui non ci sarò più, non vorrei che gli altri siano obbligati a farsi carico di Emily. Tutto ciò che facciamo oggi, lo facciamo per il futuro».
E così JPP usa la sua immagine indimenticata, il suo Pallone d’Oro in bella mostra in salotto, per sensibilizzare e raccogliere fondi e aiutare altre famiglie.
«È stato bellissimo scoprire di non essere soli». Nulla di strano, in fondo, visto che, secondo JPP, ciò che gli manca del calcio di oggi è il sentimento di squadra: «Si trovano talenti facilmente, arrivano da tutto il mondo. Anche nel calcio femminile, io seguo quello francese. Ma le squadre non ci sono più. Quando giocavo ad esempio nel Milan eravamo compagni, eravamo un gruppo. Oggi l’ego supera l’amicizia, sono più importanti le individualità. Anche perché non si è mai soli a giocare a calcio. Non è un uomo solo che perde o vince una partita». È rispettoso delle regole, Papin. Disciplinato. «Occorre rigore, sempre, rigore tutti i giorni». Proprio come ha fatto con Emily. Un’ostinata e costante speranza di andare in rete. Poi, chi vincerà la partita si vedrà. Di fatto, è una ricerca a dare il massimo, a fare bene, a unire, piuttosto che dividere. «Solo se sono allenatore amo prendere io le decisioni, tutte le decisioni. Ad esempio con il Châteauroux ho scelto chi ingaggiare, chi far entrare in campo, non ho voluto interferenze con la dirigenza del club».
C’è un giocatore che rispetti, del passato o del presente?
«Paolo Maldini. Lui dava il 200% in allenamento e il 200% in partita. E questo conta, come giocatore, come uomo». Ancora Milan (Papin sorride).
Cosa deve tenere in mente un giovane d’oggi che vuol fare del calcio la sua professione?
«Deve ricordarsi che è un gioco».
Visto che frequenti il Qatar, puoi dirci qualcosa a proposito dei Mondiali del 2022?
«Ci sono molte polemiche oggi per il Qatar che prepara la Coppa del Mondo, come se il calcio fosse una cosa solo per i club europei o sudamericani. Ma il calcio è di tutti. Io là viaggio molto per lavoro e trovo che abbiano risollevato economicamente e con entusiasmo anche il calcio europeo. Ché poi, il calcio è differente: in Inghilterra e Germania è più fisico, in Francia è più basato sulla tecnica, in Italia sulla tattica. Eppure è universale».
Mondiali 2006, partita Francia-Italia…
«Ah, beh.. Materazzi deve aver detto qualcosa che ha veramente ferito Zidane, qualcosa che ha fatto molto male. Ma ancor di più ha fatto male a una generazione il fatto che Zidane non abbia mai chiesto scusa per il suo gesto, così oggi sembra normale ai ragazzi prenderlo a esempio».
In questo essere così internazionali, con la vostra associazione vi occupate di casi di tutto il mondo?
«No, non possiamo» risponde Florence. «La nostra raccolta fondi si apre a gennaio e a dicembre le casse vengono svuotate, completamente. Scegliamo noi le famiglie da aiutare. Tutti i soldi sono versati alle famiglie che hanno bisogno e siccome siamo anche noi in prima persona ad occuparcene, abbiamo ristretto il campo di azione alla Francia. Osserviamo la gravità, studiamo le situazioni, scegliamo a campione secondo alcuni standard. E tutto il movimento è basato su JPP».
La potenza di una sigla. Un vero Monsieur oltre il gol.
Melania Sebastiani
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