Augusto Manzo
La leggenda del “balon”
Di giocare in una squadra la cui formazione comincia con Combi, Rosetta e Calligaris e in cui militano altre stelle di assoluta grandezza, come Cevenini, Orsi e Cesarini, al diciottenne Augusto Manzo, centromediano dell’Albese in Seconda Divisione (antenata della serie D), importa assai poco.
Il gran rifiuto
È l’estate del 1929 e gli emissari della Juventus insistono fino allo sfinimento, intravvedendo in quel giovanotto dal fisico perfetto, che eccelle anche nel lancio del peso, del disco e del giavellotto, un potenziale campione. Ma non c’è niente da fare: a quello strano ragazzo, che ama il greco e il latino, di diventare un idolo degli stadi, ammirato da ragazzine innamorate e da adolescenti a caccia di autografi, non interessa. Né i suoi familiari, che hanno sognato per lui un futuro da veterinario, provano più di tanto a fargli cambiare idea.
Follia? Incoscienza? Superficialità? Macché! Il fatto è che se uno nasce a Santo Stefano Belbo, il paesino del cunense che ha dato i natali a Cesare Pavese, il calcio non può essere al centro dei suoi interessi. Se uno abita in queste langhe, ricche di vigneti e di tartufi, e poi più giù, verso la Liguria, nelle valli selvagge che anticipano l’Appennino, e ancora oltre, in alcune piccole enclave della Riviera di Ponente, l’unica cosa che importa è il balon (o balùn, come lo chiamano nell’entroterra ligure). Il pallone elastico, tanto per capirci.
Una disciplina che, da queste parti, va oltre il semplice concetto di sport. È semmai un modo di essere e di vivere, un qualcosa di profondamente radicato, parte indissolubile e ineliminabile del tessuto culturale di questa parte di Piemonte e dell’immaginario collettivo delle sue genti.
Ogni partita, giocata in campi lunghi e stretti chiamati sferisteri – delimitati su un lato da un muro d’appoggio –, assomiglia infatti a una messa pagana, una funzione parareligiosa che tutte le domeniche – guarda caso terminata la messa di mezzogiorno – celebra i valori e le tradizioni della cultura contadina di questo territorio. Una sorta di liturgia laica, a cui accorre tutto il paese – uomini e donne, giovani e vecchi –, chi portandosi dietro una sedia, chi un cuscino, chi il pranzo avvolto in una tovaglia, incuranti del sole a picco, del freddo pungente o della pioggia scrosciante.
Campo e spalti sono spesso teatri di dispute sanguigne, imprecazioni colorite e incitazioni urlate a squarciagola, di quelle che ti lasciano senza voce e anche senza… soldi. Eh già, perché sul balon la gente di qua scommette tanto e volentieri, come testimoniano i totalizzatori presenti in ogni sferisterio che si rispetti. Una tradizione, quella delle scommesse, che discende dritta dritta dal Jeu de Paume, una variante tutta transalpina della pallacorda, con cui questa disciplina è imparentata.
Augusto non può e non vuole lasciare tutto questo, sarebbe un tradimento verso ciò che è e in cui crede. Come fa a rinunciare a quella piccola palla di cuoio che la sua mano fasciata, fin da quando è un bambino, scaglia nella metà campo avversaria con una forza mai vista? A sentire l’adrenalina che gli scorre nelle vene quando segna una caccia? A leggere il suo nome sui trafiletti della cronaca cittadina che lo descrivono già come un piccolo campione?
E per cosa, poi? Per diventare un eroe fatuo di cartapesta, dai capelli zuppi di brillantina e dalle cosce ipertrofiche? Sì, certo, i riflettori, la notorietà, il conto in banca, i titoli sui giornali… tutto molto seducente, ma non sufficiente a convincerlo ad abbandonare l’ambizione che cova fin da piccolo: diventare un giocatore professionista di balon.
Le prime vittorie
Perché lui, il balon, lo respira fin da quando è in culla. La sua, infatti, è una famiglia di pallonisti convinti, in casa non si parla quasi d’altro. Naturale, dunque, che già ai tempi delle elementari il piccolo Augusto metta su una sua privata quadretta – così viene chiamata la squadra nel pallone elastico, in quanto formata da quattro giocatori: un battitore, una spalla e due terzini – in cui include, oltre a sé, i tre fratelli Angelo, Tommaso e Giuseppe. I Manzo mietono vittorie a destra e a manca in sferisteri improvvisati – o solo immaginati – nei vicoli del paese, contro i muri delle chiese e nei campi seminati, tra vetri rotti, preti arrabbiati e contadini infuriati. Il ragazzo è già fortissimo e a dodici anni vince il suo primo torneo ufficiale.
Da lì in poi è un moltiplicarsi di successi. La sua fama di enfant prodige dilaga ben presto anche nei paesi limitrofi, laggiù verso la riva destra del Tanaro e perfino oltre. Tutti sentono parlare di quel ragazzino che spara la palla nel campo avversario come se avesse un fucile. I prosciutti, i formaggi e le bottiglie di dolcetto e di barbera che Augusto porta a casa – trofei di uno sport dall’anima contadina – non si contano più. Finché, nel 1928, Manzo vince a Torino il campionato giovanile. Con lui, a dividere il successo, ci sono il fratello Angelo – unico superstite della vecchia quadretta familiare – e gli amici Giovanni Domanda ed Ernesto Cottino.
Il ragazzo non si ferma mai. Durante la settimana se ne sta a Torino, dove frequenta con profitto l’ultimo anno del liceo classico e si tiene in forma praticando l’atletica leggera. Il sabato e la domenica scende nelle Langhe e si divide tra i tornei di balon e la maglia biancoazzurra dell’Albese Calcio.
Il giovane Augusto è ormai un uomo e il fascino che il pallone elastico esercita in lui è sempre più forte. Quelle grida in dialetto che rimbalzano dentro gli sferisteri – “via prima”, “trenta chi bat”, “quaranta chi u arcassa”, “secula”, “fala” – non possono competere con nulla al mondo. Nemmeno con la casacca a strisce bianconere della Juventus.
È il 1930 quando Manzo partecipa finalmente al suo primo vero campionato – quello dei grandi, quello che conta – con una quadretta di Torino, l’Eda, che lo ingaggia – rivela lo scrittore Giovanni Arpino – in cambio di due mucche. Un esordio scoppiettante: solo per un soffio, infatti, non centra il successo. Dopo una tiratissima semifinale vinta contro l’U.S. Albese, uno strappo alla schiena lo costringe al ritiro durante la partita decisiva contro i fortissimi giocatori del Neive, guidati dall’imperiese Raffaele Ricca, una vera e propria leggenda vivente.
Vittoria e gloria, però, sono solo rimandate. Non disputato per problemi tecnici il campionato del 1931, il ragazzo di Santo Stefano Belbo se lo aggiudica facilmente nel 1932, nel 1933 e nel 1935, arrivando secondo nel 1934. Ma, soprattutto, mettendo in mostra un repertorio tecnico e atletico di assoluto valore: in ogni partita la sua concentrazione è massima, i suoi scatti felini, i suoi colpi – ora possenti, ora tagliati con effetti imprevedibili – molto spesso imprendibili. In battuta Augusto spara vere e proprie fucilate da 100 Km orari che non perdonano.
«Fosse nato in America» scrive ancora di lui Arpino «avrebbe la rinomanza di certi favolosi battitori di baseball». Elegante, coordinato, resistente, dotato di uno stile impeccabile e del massimo rispetto verso gli arbitri, gli avversari e il pubblico. È caparbio, il ragazzo, non si arrende mai, nemmeno quando le circostanze lo imporrebbero.
Nel 1934, a Torino, durante una gara di campionato Tommaso, uno dei suoi tre fratelli – nuovamente riunitisi quell’anno a riformare l’antica quadretta – viene espulso per proteste mentre è in svantaggio per 3-7. La gente rumoreggia, chiede che il giocatore venga riammesso in campo, anche perché sui Manzo molti di loro hanno puntato una fortuna. Inutilmente, però: la decisione è presa e non può più essere modificata. Augusto, allora, si rivolge ai tifosi sugli spalti e li zittisce: «Tranquilli ragazzi, fate finta che siamo ancora in quattro. Tanto d’ora in poi gli altri non faranno nemmeno un punto».
Comincia a quel punto un’incredibile rimonta, sorretta dalla bravura e dalla rabbia per un’espulsione che anche lui, alla pari del pubblico, ritiene ingiusta. Travolti dalle battute terrificanti di Augusto gli avversari, dopo tre quarti d’ora, alzano bandiera bianca senza più fare nemmeno un punto. Il risultato finale è 11-7, la promessa è stata mantenuta.
La parentesi del bracciale
Bastano dunque meno di cinque anni per consacrare Augusto Manzo come un vero fuoriclasse, degno erede di indimenticabili giocatori del passato, come Giuseppe “Ghindo” Filippa, a cui fu dedicata una ballata popolare, e Paolo Rossi, altrettanto abile con la stecca da biliardo.
L’anno successivo, però, la striscia di successi s’interrompe di colpo. La patria, infatti, reclama Augusto, richiamandolo per il servizio di leva in una caserma della capitale da dove, finito l’addestramento, lo spediscono a Livorno. Ed è qui che si avvicina al bracciale, una variante del pallone elastico diffuso soprattutto nell’Italia centrale, i cui giocatori indossano al polso una specie di manicotto, generalmente in noce, munito di sette cerchi contornati di centocinque denti.
Anche il pallone è diverso, più grosso, così come la composizione delle squadre, la modalità di battuta e il punteggio. Identica, però, è la passione popolare, alimentata da un vorticoso giro di scommesse che rendono questo sport assai più remunerativo della variante ligure-piemontese.
Un fattore a cui non è insensibile il soldato Manzo. Il quale, smessa la divisa di Granatiere di Sardegna, s’impratichisce del nuovo gioco. Non tarda molto, Augusto, a diventare un fuoriclasse anche in questa disciplina, che nella città labronica si gioca nel mitico sferisterio Marradi, poi trasformato in Arena. Già nel 1937, infatti, vince il campionato italiano con la squadra toscana in una memorabile finale disputata a Macerata. Titolo replicato nel 1942 a Rimini, dopo un piazzamento d’onore ottenuto tre anni prima. Augusto Manzo, ora, è una stella di prima grandezza anche nel firmamento del bracciale.
Non che il balon, l’uomo di Santo Stefano Belbo, se lo sia dimenticato. Ogni volta che può, infatti, torna nelle sue amate Langhe e ingaggia con i vecchi amici e compagni serratissime amichevoli, ché i venti di guerra imminente hanno congelato tornei e campionati. Guerra che, puntualmente, incendia l’Europa e il mondo a partire dal 1939.
Tra gli infiniti lutti e danni provocati dal conflitto, c’è la sopravvivenza stessa di questi antichi giochi popolari. Il bracciale quasi si estingue, mentre l’area dove si gioca il pallone elastico si restringe in maniera drammatica. A Torino e Genova, a esempio, quasi sparisce. Un sacco di impianti, distrutti dai bombardamenti, non vengono più ricostruiti. Il campionato riprende, sì, ma è un’altra cosa rispetto al passato. Il professionismo, tanto per dirne una, è solo un ricordo.
Sono tempi duri, quelli del dopoguerra. Tempi di stenti e di fame, ma anche di voglia di vivere. Il campionato riprende e Manzo va a giocare nella quadretta di Alba. Lo fa per due soldi, per un piatto di pasta e, a volte, nemmeno per quella. Ogni tanto, come racconta il suo antico compagno Antonio Porello, lui e gli amici sono costretti a rubare una gallina da qualche isolata cascina.
Per fortuna la guerra non ne ha intaccato la classe. Quella, almeno, è rimasta la stessa di sempre. Fame o non fame, le sue battute al fulmicotone tornano a sferzare l’aria dei pochi sferisteri rimasti in piedi. Se ne accorgono, ben presto, gli avversari, costretti, per cinque edizioni di fila (dal 1947 al 1951) a vedere salire sul gradino più alto del podio il campionissimo di un tempo.
Sulla via del tramonto
Ma gli anni passano e se la voglia di giocare e di vincere resta intatta, la forza diminuisce, come è naturale, un po’ alla volta. All’orizzonte si affacciano nuove quadrette e nuovi, promettenti campioni. Finalmente, grazie alla ripresa economica degli anni Cinquanta, alcune società riescono ad assicurare, ai più bravi, ingaggi nuovamente allettanti.
Fra questi c’è Franco Balestra, un giovane originario dell’imperiese, che non tarda a imporsi all’attenzione della gente. Tra lui e Augusto si innesca fin dall’inizio un’acerrima rivalità che, negli anni a venire, non avrà niente a invidiare con quella, ben più nota, tra Coppi e Bartali.
Il vecchio campione impara a conoscere quel ragazzo (ha tredici anni di meno), di cui si parla un gran bene, nella controversa finale del 1952, il cui titolo non viene assegnato (lo sarà molti anni dopo a tavolino, a favore dei liguri) per l’eccessivo prolungamento del calendario. Da allora i duelli col giovane avversario diventano capitoli imperdibili dell’epica stessa di questa disciplina.
Manzo si allena come un forsennato per restare il più possibile sulla cresta dell’onda. L’età, tuttavia, gioca a favore del rivale che lo scalza definitivamente dal trono tre anni dopo, nel 1955. Avviene durante la finale del campionato giocata allo sferisterio di via Napione a Torino, davanti a seimila spettatori e decine di giornalisti e fotografi. Una folla incredibile anche perché, quasi in contemporanea, a pochi chilometri di distanza, va in scena il derby tra Torino e Juventus.
Balestra, che nel frattempo ha lasciato la Liguria per approdare sotto la Mole nelle fila della SAPET che – si dice – lo fa suo per 500.000 lire all’anno (un ingaggio da calciatore), fa valere tutta la differenza di età a sua favore. La finale non ha storia: il giovanotto d’Imperia trascina la sua squadra alla vittoria, relegando definitivamente il vecchio campione nell’album dei ricordi.
Augusto Manzo, però, è troppo innamorato del suo balon per mettersi a fare il pensionato. Continua così a calcare il terreno degli sferisteri di mezzo Piemonte, ora non più per la vittoria e per la gloria, ma per il semplice e puro divertimento. Ovunque vada viene salutato e applaudito dal pubblico e dagli avversari, così come si confa a una leggenda vivente.
L’uomo di Santo Stefano Belbo si ritira solo nel 1963, a cinquantadue anni, dopo aver disputato qualcosa come 3.500 partite di pallone elastico e 1.500 di bracciale. Morirà nel 1982, in seguito a un incidente stradale.
Di lui hanno scritto in tanti, da Beppe Fenoglio a Gianpaolo Ormezzano, ma nessuno, come il già citato Giovanni Arpino, ha saputo riassumere in poche righe tutta la sua grandezza.
«Talmente forte da non aver bisogno di intrallazzare. Talmente umano e nobile da diventare subito amico di tutti. Atleticamente dotato come pochi […], è stato uno di quei rari esempi di campioni-simbolo che riassumono in se stessi, in ogni gesto e ogni atteggiamento, il succo più segreto dello sport praticato».
Un epitaffio degno dei più grandi atleti dello sport. Che poi il suo nome sia sconosciuto al grande pubblico poco importa. Augusto Manzo è stato un grande uomo e un formidabile campione. È grazie anche a lui che il pallone elastico, oggi ribattezzato pallapugno, continua a essere praticato e seguito in quella affascinante parte d’Italia.
Con la stessa, identica passione di sempre.
Marco Della Croce
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Finalmente un articolo (e che articolo: complimenti!) sulla pallapugno! Siete tra i pochi (o forse gli unici) a parlare veramente di tutti gli sport, anche quelli cosiddetti “minori”. Qui da noi, in Piemonte, Manzo è ancora oggi un nome che, soprattutto nei più anziani, suscita ricordi indimenticabili. Anche a nome loro vi dico grazie (AR)
Ho scritto alcune storie di campioni leggendari del pallone elastico, mi piacerebbe pubblicarle sul vostro sito come posso fare?
Leggi le norme e mandaci una mail! Ti aspettiamo!
http://www.storiedisport.it/?page_id=230